Si potrebbe iniziare, e anche concludere, semplicemente citando uno dei (tanti) personaggi più iconici della filmografia di Quentin Tarantino: Aldo Raine.
Nello specifico, la battuta con cui Bastardi Senza Gloria viene chiuso, in cui il tenente ammazzanazisti riflette su quello che potrebbe essere il suo capolavoro. Di fatto, C’era una volta a…Hollywood potrebbe essere il capolavoro di Quentin Tarantino. Abbiamo sentito ripetere molte volte questo aggettivo assolutista associato al regista di Pulp Fiction.
Ebbene, qui Tarantino riscrive quasi interamente la sua intera filmografia con un film che ci trascina nella Hollywood del 1969. Prima febbraio, poi agosto. E lo fa attraverso gli occhi di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e Cliff Booth (Brad Pitt). Attore il primo e stunt-man il secondo, amici inseparabili. Due facce diverse della stessa medaglia, una star che sta per essere definitivamente accantonata dalle logiche dello star system e una figura che sta affondando insieme a lui.
Il primo che reagisce male, gettandosi nel pianto e nell’alcool, dopo che il suo agente gli propone di andare in Italia da Sergio Corbucci. Il secondo che la prende con filosofia e dignità, scarrozzando a destra e manca il suo amico che in cambio lo fa sopravvivere facendolo lavorare di tanto in tanto sui set dove è malvisto da chiunque. Sullo sfondo, le vicissitudini della Hollywood che stava per entrare negli anni ’70.
Le feste a casa Refner, l’erba, gli hippy, la Famiglia di Charles Manson. Non rovineremo il film raccontando la trama nel dettaglio perché, si sa, Tarantino mette il suo anche nei film dove (si suppone) si racconta la realtà. Che permane per gran parte del tempo, al netto delle polemiche legate alla sequenza dove compare Bruce Lee.
C’era una volta a…Hollywood è un film che presta il suo fianco ad una serie di analisi quasi infinite. E che arriveranno col tempo, senza ombra di dubbio alcuno. Se visto con un piglio superficiale, potrebbe anche non piacere. Soprattutto se ci si aspetta il classico film tarantiniano, carico di sangue, botte, linee temporali sfasate e tutto quello che da sempre ha caratterizzato l’estetica e lo stile di Quentin Tarantino.
Di fatto, ci troviamo di fronte ad un film che ben poco ha a che vedere con quanto visto da Le Iene a The Hateful Eight, se non negli ultimi, sanguinolenti minuti. In C’era una volta a…Hollywood, viene messa quindi in completa discussione tutta la filmografia di Tarantino e si entra in un mondo del tutto nuovo. E metacinematografico.
La realtà si mischia con il set in uno schiocco di dita. È un racconto, un documentario, è finzione. Il vero si mischia con la fantasia così come i generi si mescolano tra loro, senza soluzioni di continuità, e si approcciano ad una realtà varia e variopinta. Sublimi le prove attoriali di questo supercast, tanto nei protagonisti quanto nei comprimari.
Nomi di tutto rispetto, in fin dei conti, come Kurt Russel, Emile Hirsch e Al Pacino. Attori di prim’ordine funzionali a costruire il discorso metacinematografico di un Tarantino che ci regala la sua idea di cinema attraverso una divisione di microuniversi che confluiscono in un unico universo. Si guarda al microcosmo in totale disfacimento di Dalton, si guarda alla totale distruzione della società stereotipata pre ’68, pre rivoluzione.
Cambia il mondo, cambiano le persone. E si riparte dunque da zero, in un gioco dialettico dove la sublimazione trova terreno fertile proprio in quella finzione da lui raccontata. Il cinema di serie B italiano per Dalton, gli spaghetti western, l’anno zero della società tutta, creato dagli hippy a piedi scalzi.
Un mondo che quindi si sfalda e poco a poco rinasce. Ed è qui che la potenza del metacinema di Tarantino trova pieno compimento fino ad una violentissima chiosa finale. Perché non esistono rivoluzioni senza sangue versato. Anche se assistiamo a molti meno spargimenti, rispetto al passato.
La sofferenza fisica dei proiettili o delle katane, viene meno. Si entra in una sfera emotiva, riflessiva, come nella sequenza in cui DiCaprio racconta la storia del libro che sta leggendo ad una “collega” di set molto giovane.
E scoppia nel primo pianto del film. Distruzione e ricostruzione, passaggi obbligati per ogni rinascita e per ogni (ri)partenza da zero. Assumendo de facto una valenza mitologico-fiabesca che possiamo intuire già dal titolo C’era una volta a…Hollywood, oltre che al classico omaggio a Sergio Leone.
Una finta realtà dove è il particolare a rendere tutto interamente speciale. Immancabili le citazioni, esplicite come quando Sharon Tate va a vedere al cinema il “suo” film con Dean Martin, The Wrecking Crew.
Sullo sfondo, come l’iniziale locandina di The Giant con James Dean. Immancabile la perfetta colonna sonora originale di quei tempi, salvo verso la cover finale di California Dreamin’. Scelta non casuale che va a simboleggiare proprio il discorso dialettico del film.
Proprio quando C’era una volta a…Hollywood trova il suo perfetto finale in cui altro non si può fare che battere le mani. Perché gli oltre centosessanta minuti di C’era una volta a…Hollywood sono la risposta alla domanda “Cos’è il cinema per Quentin Tarantino?”.
Un film che è un’aperta dichiarazione di amore a chi il cinema l’ha assaporato in ogni sua forma, da spettatore, da venditore, da creatore. E quindi, ritornando da dove si era partiti, ecco perché questo potrebbe essere il suo capolavoro.
Nota a margine: si consiglia vivamente di guardare il film, laddove sia possibile, nella versione in pellicola 35mm. Senza fare i figli incestuosi della nostalgia, certi colori li sa restituire solamente la cara e vecchia pellicola.
Spiegazione del Finale
A cura di Luca Varriale
Il finale di C’era una volta a Hollywood ha lasciato perplessi, e spiazzati, numerosi spettatori. Eppure i tarantiniani dovrebbero ormai aver fatto il callo a questa “abitudine” di cambiare la Storia da parte del regista di Pulp Fiction.
Tale consuetudine narrativa è già stata analizzata, da chi scrive, in occasione della recensione di Bastardi senza gloria, in cui si esamina il piacere “vendicativo” nei confronti di alcuni fatti storici. Quentin Tarantino, attraverso la finzione filmica, mette in atto una soddisfazione, intesa nel senso duellistico del termine, che catarticamente porta ad una liberazione nei confronti dell’ineluttabilità dell’accaduto, che per definizione non può essere modificato se non tramite un intenso lavoro di fantasia.
Il fastidio o il disorientamento che molti spettatori possono provare dinanzi a tale operazione immaginativa è certamente figlia di due sensazioni: la prima è legata alla trasformazione della certezza in incertezza; siamo abituati infatti a concepire il passato come qualcosa di immutabile e, pertanto, una sua modifica, per quanto fantasiosa, fa crollare una convinzione granitica di cui necessitiamo per poterci muovere nel mondo.
Il secondo motivo, invece, va ritrovato in un aspetto più concreto, vale a dire prettamente collegato al fatto storico preciso che si va a cambiare. Un’operazione di questo tipo potrebbe urtare la sensibilità di numerose persone coinvolte nell’accadimento preso in oggetto. Dobbiamo sempre pensare che spesso un avvenimento storico che a noi appare lontano, per molti, invece, è una ferita ancora aperta e lontana dall’essere risanata.
I casi precedenti al finale di C’era una volta a Hollywood
A conferma del rischio descritto in questo secondo aspetto c’è la ricezione delle due opere precedenti a C’era una volta a Hollywood in cui Tarantino pone in essere un sostanziale rimaneggiamento della Storia: Bastardi senza gloria e Django. Ricordiamo, a titolo d’esempio, alcune ostili dichiarazioni da parte di alcuni esponenti della comunità ebraica in occasione della proiezione di Bastardi senza gloria in Israele:
Non andrò a vederlo . Quando si rovescia la storia, rappresentando ebrei carnefici e nazisti vittime, si commette un falso. Sia pure con la scusa dell’ironia. Ci sono stati casi di vendetta, ma pochissimi. Già noti. E ben diversi da come li racconta Tarantino. A lui interessa solo mostrare la violenza di quell’epoca, per fare soldi: una speculazione che non mi piace. (Yehuda Bauer, storico della Shoah)
Questo è revisionismo storico. Come ebreo, vi dico che nessuno della mia stirpe ha mai ammazzato i tedeschi. È successo il contrario. E l’unica vendetta possibile fu la fuga. (cittadino comune al quotidiano israeliano Haaretz)
Anche se con opinioni prevalentemente opposte, il film ha scosso anche l’opinione pubblica tedesca con il risultato, prevedibile vista la legge, di aver eliminato tutte le svastiche presenti sulle locandine del film. Come potete notare, tali modifiche storiche possono urtare la sensibilità dei diretti interessati e scoperchiare un vaso di pandora pieno di risentimento e rabbia o comunque aprire un dibattito in cui le opinioni contrastanti la fanno da padrone.
Altro esempio di come Tarantino abbia più di una volta scosso il proprio pubblico attraverso questa tendenza è sicuramente Django. Come ricorderete, il film con protagonista Jamie Foxx, è un revenge movie atto a “vendicare” la terribile pagina storica della schiavitù afroamericana. Anche allora non mancarono feroci polemiche, tra cui spicca sicuramente quella del noto regista e attivista Spike Lee:
La storia della schiavitù non è uno spaghetti western alla Sergio Leone. È stato un Olocausto, i miei antenati erano schiavi, rapiti dall’Africa. Io non andando a vedere il fim renderò loro omaggio.
Serve altro per dimostrare come una tale operazione scuota sin dalle fondamenta l’opinione pubblica? Crediamo proprio di no.
Pertanto, nonostante l’argomento controverso e l’impossibilità di un’opinione che concili le varie posizioni, ci teniamo a porre l’accento sul “coraggio” di Quentin Tarantino nell’addossarsi un rischio del genere. Mostrare il fianco alle critiche in un mondo in cui tutti possono dire la propria e dove le persone e le comunità sono pronte a difendersi da qualsiasi rimaneggiamento della propria storia e tradizione non è cosa da poco. Ci vuole autostima, fiducia nei propri mezzi e convinzione nella bontà delle proprie intenzioni.
Tale atteggiamento ha raccolto i suoi frutti proprio in occasione di C’era una volta a Hollywood, in cui il totale cambiamento della storia originale è stato accolto positivamente dai diretti interessati ovvero le famiglie delle vittime, su tutte quella di Sharon Tate. I familiari della sfortunata attrice non solo hanno apprezzato il film ma si sono detti profondamente soddisfatti di come la Tate sia stata rappresentata sul grande schermo.
Non è “storicamente” facile accettare che la brutalità dell’eccidio sia stata ritorta contro i carnefici né restare indifferenti dinanzi a un cambiamento così radicale dei fatti. La violenza brutale perpetrata quella fatidica notte del 9 agosto 1969 ha ormai assunto ruolo di monito e di condanna verso tutte le barbarie perpetrate dall’uomo contro l’uomo.
Le sedici insane, malate, malvagie coltellate inferte ad una innocente e incinta Sharon Tate sono ormai simbolo di come la follia e la crudeltà possano distruggere non solo i familiari delle vittime ma anche un’intera comunità, nazione, continente gettando nel buio perpetuo numerose generazioni.
Allora perché accettare un finale del genere? Perché “perdonare” Tarantino? Perché nonostante abbiano dignità anche le opinioni frutto di indignazione e rifiuto del revisionismo storico è anche vero che esiste un’altra faccia della medaglia: la necessità della catarsi. Che questa si raggiunga tramite un complesso processo tangibile e reale o attraverso un volo di fantasia mediante un gioco favolistico della mente non importa, soprattutto se portatrice di tale liberazione è l’arte.
Quando si accendono le luci e il film è terminato la rabbia è confluita in un punching bag su schermo. L’adrenalina accumulata nell’attesa di un finale tristemente noto è sostituita da una liberazione inaspettata, ove ci si congeda (almeno per un momento) da malinconie e ire personali. E perché no, anche storiche.
Tarantino è come un bambino che vuol viaggiare nel tempo, riscoprire quel mondo perduto e cercare di sistemare le tristezze che, inevitabilmente, hanno macchiato un mondo illusoriamente incantato. Sta a voi accettarlo o meno.
Analisi Interpretativa e Significato
C’era una volta a Hollywoodè un appassionato racconto di cinema. E parlare di fiaba a proposito del nono film di Quentin Tatantino non è solo dovuto all’incantevole invocazione del titolo. Di fiabesco c’è soprattutto la profonda riflessione che il regista inscena sul tema della finzione, essenza della Settima Arte.
Non è solo il film ad essere una fittizia messa in scena, ma è la natura intrinseca dell’esperienza cinematografica a configurarsi come un’illusiva rappresentazione.
Tarantino ha quindi intrapreso un’indagine sul complesso rapporto tra la realtà e la finzione, dei quali il cinema si fa termine medio, processo che trasforma il reale in finto e il finto in reale. Tutto il film risulta essere una densa opera meta-cinematografica, in cui il regista sovrascrive continuamente intenti, simboli e pagine di storia: del Cinema e del suo cinema.
Per fare ciò C’era una volta a Hollywood è stato concepito, alla stessa maniera di Bastardi senza gloria, come un film ucronico. Una re-interpretazione della Storia, nella quale la grande capacità di storytelling di Tarantino viene calata in un contesto realistico. Per tratteggiare l’epoca — meravigliosamente dipinta come mai prima dalla musica e dalla citazione perpetua di una Hollywood dimenticata — diventa fondamentale la figura di Sharon Tate.
È l’elemento cardinale che permette alla storia di mantenere quella patina di verosimiglianza in cui la coppia Rick Dalton-Cliff Booth riesce a muoversi come archetipo del mestiere attoriale.
“Se pensate di vedere doppio non regolate il vostro televisore perché, bhe, in qualche modo è così!” (C’era una volta a Hollywood)
Tra Realtà e Finzione
Il primo input del film, quasi una didascalia, rende esplicito il significato del duo formato da Rick Dalton e il suo stuntman. Come tanti altri film, C’era una volta a… Hollywood si appropria del tema del doppio, attribuendogli tutte le complesse sfumature che assume la dicotomia tra realtà e finzione. Emblematico lo scambio dei loro nomi nei titoli di testa, un gioco non troppo sottile ma di certo riuscito. La dichiarazione di una congegnata macchina cinematografica, che sposta continuamente il binario della narrazione tra diversi livelli narrativi.
Rick Dalton ( Leonardo di Caprio ) e Cliff Booth ( Brad Pitt ) in una Scena tratta dal Film di Quentin Tarantino: C’era una Volta a… Hollywood
Si creano quindi una serie di variazioni su questo topos fondamentale, che scinde le diverse identità del film, dei personaggi, nonché dell’autore e dello spettatore. Nella sequenza in cui seguiamo Cliff tornare al suo camper la macchina passa sopra un cinema Drive-In, centrando nell’inquadratura i raggi del proiettore. Si squarcia così la tela, il film ci viene proiettato letteralmente addosso, rendendoci una componente attiva.
Ciò è reso ancora più evidente nella sequenza in cui Sharon Tate è al cinema per vedere il suo film. Il modo in cui si compiace delle reazioni del pubblico in sala crea lo spazio a Tarantino per sostituirsi alla co-protagonista: un cantuccio del poeta, come lo definirebbe Manzoni. Non per esprimere, ma per guardare.
Utilizzando il primo piano sui piedi eleva un suo stilema a simbolo della sua presenza. E scindendosi tra fruitore e autore, Tarantino si rivolge direttamente al suo pubblico, ribadendo di essere prima appassionato cinefilo che cineasta.
I bellissimi primi piani frontali sullo sguardo di Margot Robbie creano un collegamento particolare con la sala. E così Tarantino ride dietro la cinepresa, ammirando ad un tempo la sua opera e le reazioni dei suoi spettatori. Un raffinato gioco di specchi per cui ci si trova dall’altra parte dello schermo, e che rende questa sequenza particolarmente centrale e significativa.
Film nel film, Film sul film
Questo è solo uno degli strati che Tarantino abilmente crea. Infatti, benché Sharon Tate sia il centro e la circonferenza del sistema di personaggi, il polo della narrazione è sicuramente la coppia Dalton-Booth.
L’uno incarna la falsità scenica, il secondo la realtà fisica dell’attore. Mentre seguiamo le avventure urbane di Cliff, il personaggio di Di Caprio è relegato al set per diventare il protagonista di un’articolata riflessione sul momento creativo del cinema. E quale miglior pretesto narrativo del western, da sempre genere di confine tra il cinema d’autore e i tanto amati B-Movies.
Rick Dalton è sul set per girare, nel ruolo del cattivo, l’episodio pilota della serie western Lancer. Si miscelano continuamente i piani narrativi tramite la finzione meta-cinematografica: Tarantino si appropria della macchina di Sam Wanamaker, orchestrandone i movimenti e facendo combaciare i due livelli della storia.
Invece però di seguire la vicenda istante per istante attraverso un piano-sequenza, lascia che il montaggio intervenga a moltiplicare il singolo sguardo in plurimi punti di vista. La finzione si realizza non solo nel contenuto, ma anche nella forma, che non smette di essere cinema anche quando ritrae il cinema stesso.
Assistiamo all’istante, all’uno, che genera ilmolteplice. La finzione nella finzione di un film già montato nel momento stesso in cui viene girato.
Rick Dalton sul Set Cinematografico
Allo stesso modo viene scandagliato a fondo il gesto creativo dell’attore. Mentre Rick Dalton, nel confronto con la giovanissima Trudi Fraser, vive il passaggio ad nuovo cinema dal quale è tagliato fuori, diventa doppio di se stesso. Nell’istrionico sfogo nel camper diventa evidente che Di Caprio interpreti un personaggio bipolare. L’utilizzo dello specchio in questa scena, per cui il riflesso di Rick Dalton guarda in camera, puntando il dito e bucando la quarta parete, sottolinea la sua natura ambigua.
Ma in quanto film ucronico, la Storia è una cifra di riferimento di C’era una volta a… Hollywood.
Ed è nell’essere una revisione critica della Storia che questo film esprime al massimo il suo potenziale. Sviluppa tutte le possibili antitesi della Storia, facendole coesistere in un perfetto equilibrio. Se la Storia è la realtà dei fatti, la sua negazione immediata è la finzione. Ma su questo il film si è ampiamente espresso. Più interessante è il dualismo tra la Storia come certezza, contrapposta alla possibilità.
Il tramonto di Hollywood sembra parlare della fine certa del cinema. Ed è Rick Dalton a viverlo sulla sua pelle, costretto a piegarsi alla logica del sistema produttivo. Sharon Tate e l’abbraccio che la unisce al protagonista alla fine del film rappresenta allora il cinema come possibilità.
Non solo nel modo amorevole e puro in cui questo film la resuscita, ma soprattutto nel modo in cui questo film la salva. Tarantino si rifugia nella possibile riscrittura della storia, dichiarando apertamente il suo amore alla gloriosa stagione della Hollywood classica, morta insieme a Sharon Tate.
Tutto fa presagire il massacro
L’inserimento del voice-over dettaglia minuto per minuto la ricostruzione dei momenti precedenti la strage. Una continua commistione di stili caratterizza in generale tutta l’opera, non solo nell’inflessione sulla grammatica del genere horror nella sequenza con la family e Cliff al ranch.
In questo caso viene adoperato il registro documentaristico, impreziosito dall’inserimento di finte immagini di repertorio. Cronaca che diventa narrazione. L’ennesimo gioco di prestigio rovescia le aspettative, regalandoci la sequenza certamente più tarantiniana.
Ed è qui che finalmente vediamo Cliff Booth entrare in azione quale controfigura. Sostituendosi a Di Caprio, letteralmente fuori dalla scena, sarà lui a proteggere la sua proprietà. Come fu per il disgraziato Polanski nella realtà, anche Rick Dalton non è presente a difendere sua moglie al momento dell’aggressione, e il film sembra alludere ad altre sottili analogie.
L’arrivo in aeroporto di Rick e Francesca è infatti una variazione della sequenza iniziale in cui vengono presentati Polanski e Sharon Tate, persino nel taglio di capelli di Di Caprio.
Il set e la realtà continuano a compenetrarsi, avendo annullato ormai qualsiasi possibile distinzione. Ciò che è più interessante in questo episodio è però l’utilizzo della soggettiva libera indiretta.
Tarantino torna a sostituirsi ad un personaggio, ma in questo caso per dispiegare i suoi violenti cliché. Sfruttando lo stato mentale alterato di Cliff Booth, ci troveremo davanti ad un grottesco e surreale massacro.
L’ipertrofica recitazione di Mikey Madison, splendida hippy indemoniata, e la grande rivalsa da protagonista di Rick Dalton sono il coronamento di una sequenza magnifica. Di certo non frutto del trip di Cliff, anche se è lui stesso a chiedersi se tutto ciò fosse reale. La sua condizione alterata è però il pretesto narrativo per inscenare il massacro come uno sfogo, come un monologo interiore, in cui finalmente Brad Pitt diventa personaggio primario.
Di Caprio e il Lanciafiamme
Tra le varie auto-citazioni, da Casa Vega al mosaico del dolly di apertura di Jackie Brown, spicca sicuramente quella ampia di Bastardi senza gloria, che subisce due variazioni consistenti. La prima all’inizio del film, quando Marvin Schwarzs (Al Pacino) enumera alcuni dei ruoli più emblematici di Rick Dalton.
Ne I 14 pugni di McClusky viene rielaborata la celeberrima scena dell’incendio del cinema ad opera di Shosanna, che quasi tradisce la volontà di Tarantino di storicizzarsi. Alla continua rielaborazione fittizia della Hollywood tanto amata affianca anche il proprio cinema: si compenetrano storia personale e storia artistica, ma anche storia del Cinema e storia del proprio cinema.
Frame da “I 14 pugni di McClusky”Un riferimento al mosaico che fa da sfondo al dolly in apertura a Jackie Brown.
Altre dicotomie che scindono ulteriormente l’identità di Tarantino, caleidoscopico deus ex machina di una perfetta macchina di scrittura e di regia. La seconda variazione è però ancora più audace della prima.
Nel rivisitare ulteriormente uno dei suoi miti, Tarantino lo trasforma in un puro simbolo; elemento in termini squisitamente rappresentativi con il suo cinema. Uno stilema privo di qualsiasi involucro concettuale e artistico, puramente estetizzato, in forma di art pour l’art. Così all’autore non è mancato il coraggio di affrontare il valore sedimentato della sua arte, guardando retrospettivamente al proprio passato.
L’ultima dialettica della Storia è quindi il presente
Dialettica che rivive simbolicamente nel passaggio tra la vecchia e la nuova Hollywood. Contrasto che si nutre della coesistenza tra un linguaggio ormai più che emblematico e una certa volontà di sperimentare.
In questo film Tarantino perviene ad un utilizzo della macchina magnetico, quasi spiritico, specie nelle ripetute carrellate a seguire, indubbia cifra stilistica dell’opera. Alla perizia tecnica si aggiunge una grande sensibilità nella costruzione di corrispondenze attraverso le sole immagini, che smentisce qualsiasi idea, purtroppo diffusa, sul Tarantino eterna parodia di se stesso.
Allora C’era una volta a Hollywood potrebbe essere davvero il film dell’addio. Non solo per le dichiarazioni dello stesso regista, ma perché, come Inland Empire per Lynch o il recentissimo Dolor y gloria per Almodóvar, rappresentano la summa di un linguaggio che si è stratificato negli anni. Un commosso commiato, pieno di incanto e positiva auto-celebrazione, dalla propria storia artistica ed umana.
C’era una volta a Hollywood è il secondo film di Quentin Tarantino con il miglior incasso, dopo Django Unchained. La pellicola, che è arrivata nei nostri cinema da pochi giorni, ha conquistato la critica per il suo tono favolistico e quell’amore pieno di rimpianto per un momento storico dell’arte del cinema che forse rimarrà inimitabile.
Detto questo, C’era una volta a Hollywood non sarebbe un film di Tarantino se non fosse pieno zeppo di rimandi, easter eggs e curiosità capaci di far impazzire di gioia lo spettatore più attento.
Partendo dal presupposto che la nostra conoscenza non sarà mai uguale a quella di Quentin Tarantino e che, per questo, possiamo aver dimenticato/non visto alcune di queste perle nascoste, nell’articolo che segue abbiamo cercato di raccontarvi il maggior numero possibile di curiosità che ci sono saltate all’occhio.
Omaggio a Once Upon a Time in America
Naturalmente, il primo omaggio evidente riguarda Once Upon a time in the west e Once Upon a Time in America, entrambi film di Sergio Leone. Quest’ultimo è, probabilmente, il più famoso regista del genere spaghetti western, che tanto viene criticato da Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) quando scopre che la sua unica possibilità di non rinunciare alla carriera è quella di volare in Italia e diventare un divo di quel tipo di cinema di cui Leone è, appunto, il massimo rappresentante.
Senza dimenticare che Quentin Tarantino non ha mai fatto mistero di quanto questi film non solo fossero di suo gusto, ma di quanto abbiano anche influenzato il suo tipo di cinema. Give me a…Leone!
Un altro riferimento alquanto palese è la presenza in C’era una volta a Hollywood del nome di Sergio Corbucci. Rick Dalton va a Roma a lavorare alle dipendenze di uno dei registi preferiti di Tarantino. Senza contare che Sergio Corbucci fu anche il regista di Django, il film cult con Franco Nero, di cui Tarantino ereditò le atmosfere nel bellissimo Django Unchained, dove lavorò anche Leonardo DiCaprio.
Un altro film che Rick Dalton filma mentre è nella capitale porta la firma di Antonio Margheriti. Il nome vi sembra famigliare? Beh è quello che Eli Roth dà a Christoph Waltz in Bastardi senza Gloria, nella scena all’interno del cinema, poco prima del pirotecnico finale. Ma questo non è l’unico omaggio che C’era una volta a Hollywood fa nei confronti del settimo film di Tarantino.
La scena della pellicola che Rick sta girando, in cui dall’alto dà fuoco a un nutrito gruppo di nazisti non potrebbe essere un rimando più evidente di quanto accade nel cinema di Shoshanna (Melanie Laurent), quando le fiamme divampano a cancellare i nazisti dall’equazione della storia.
Leonardo DiCaprio nella scena di C’era una volta a Hollywood nella quale imbraccia un vero lanciafiammeEli Roth in Bastardi senza gloria
All’inizio di C’era una volta a Hollywood si può vedere Rick Dalton sul set di Bounty Law, la serie che sta girando per cercare di rimanere a galla. Lo show è girato in una località chiamata Melody Ranch. Si tratta dello stesso set utilizzato per girare Django Unchained.
Inoltre, all’inizio del film, uno spot proprio di Bounty Law permette a Quentin Tarantino di giocare col famigerato Wilhelm Scream: si tratta di un effetto sonoro riciclato, che somiglia molto a un urlo reitarato e isterico, che spesso veniva usato nelle produzioni degli anni ’70 con uno scopo parodistico. Non è la prima volta che Tarantino lo usa: lo aveva già fatto, per esempio, anche in Kill Bill, nella famosa scena di lotta di Uma Thurman.
Se, poi, vogliamo rimanere nel campo degli effetti sonori, in C’era una volta a Hollywood c’è una scena in cui Cliff passa davanti il drive-in: in sottofondo si sente un jingle che, all’epoca, annunciava l’inizio della proiezione in sala. Un suono di cui si era servito anche Rodriguez in Grindhouse: il Our Feaure presentation è un’altra citazione in cui Tarantino si è dunque divertito.
Quando, invece, Rick e Cliff sono in Italia, Rick parla della possibilità di una fase discendente della sua carriera e della volontà di trasferirsi, a vivere, a Toluca Lake, un quartiere della San Fernando Valley. Un luogo che ha una sua modesta importanza anche in Pulp Fictione la sentiamo citare da Samuel L. Jackson, quando è in macchina con Vincent Vega (John Travolta).
C’è inoltre un altro elemento che lega i film di Quentin Tarantino. In C’era una volta a Hollywood vediamo Rick pubblicizzare una marca di sigarette, chiamata Red Apple. Questa marca appare in tantissime occasioni. Per citarne alcune: in Pulp Fiction, tra le mani di Uma Thurman, prima della famosa scena di ballo. In Kill Bill Volume Uno Beatrix passa davanti ad un poster pubblicitario della marca. Appare nelle tasche delle divise in Bastardi Senza Gloria e sul bancone della locanda in The Hateful Eight. In C’era una volta a Hollywood, il marchio di sigarette appare due volte. La prima è quando Cliff incontra Randy. La seconda è quando, nella scena post-credit, Rick Dalton fa pubblicità a queste sigarette, pur avendo fumato un’altra marca per tutto il film.
Rick inoltre prende parte alla serie televisiva THE FBI. Si tratta di una vera serie andata in onda negli anni ’90. Nello show Rick Dalton interpreta il personaggio di Michael Murtagh, che nella realtà era interpretato da Burt Reynolds che, stando a quanto riportato dallo stesso Quentin Tarantino è alla base dell’ispirazione che lo ha condotto a Rick Dalton.
Come è noto, Quentin Tarantino ama lavorare con le stesse persone, più e più volte. Avevamo già visto Brad Pitt in Bastardi senza Gloria e Leonardo DiCaprio in Django Unchained. In C’era una volta a Hollywood possiamo vedere, ad esempio, un cameo di Michael Madsen. L’attore è forse quello che, al suo attivo, ha più collaborazioni con Tarantino; forse la più amata resta Mr. Blonde in Le Iene.
Ma forse uno dei rimandi più forti che lega tutta la filmografia di Quentin Tarantino a questo suo nono film è la presenza di Kurt Russell che interpreta Randy, un coordinatore stuntman. Il richiamo a Stuntman Mike di Death Proof – A Prova di morte non avrebbe potuto essere più evidente.
Kurt Russell nei panni di Randy Stuntman in C’era una volta a HollywoodKurt Russel è stuntman Mike in Death Proof
Sempre in Death Proof – A prova di morte, avevamo potuto vedere Zoe Bell, che in C’era una volta a Hollywood interpreta la moglie di Randy/Kurt Russell. Per chi non lo sapesse, Zoe Bell è veramente una coordinatrice stuntman e, inoltre, è stata la controfigura di Uma Thurman in Kill Bill e di Melanie Laurent così come di Diane Kruger in Bastardi Senza Gloria.
Ma C’era una volta a Hollywood non rimanda solo alla precedente filmografia del suo regista, ma anche ad un vero e proprio patrimonio culturale cinematografico di fine anni ’60. Ad esempio, alle fermate degli autobus presenti nella pellicola, viene pubblicizzato spesso Fright Night, uno show che i protagonisti vedranno all’interno della pellicola. Sull’intestazione di un cinema si legge il titolo del film The Night They Raided Minsky’s, film di William Friedkin conosciuto in Italia con il titolo di Quella Notte Inventarono lo spogliarello, uscito in realtà nel 1968, quindi qualche mese prima rispetto alla cronologia di Once Upon a Time in Hollywood.
Inoltre nella scena immediatamente precedente a quella in cui Sharon Tate va a guardare se stessa al cinema, la vediamo comprare un’edizione preziosa del classico Tess dei D’Uberville. Nell’universo alternativo che conseguirebbe dal finale scelto da Tarantino, probabilmente Sharon Tate avrebbe lavorato con il marito Roman Polanski e sarebbe stata lei la protagonista di Tess, pellicola del 1979 che vede come protagonista Natassja Kinski.
Ma non sono solo i film che Quentin Tarantino omaggia: il regista si sofferma anche, con un velo di malinconia, sui cinema che caratterizzarono la sua giovinezza a Los Angeles. È il caso, ad esempio, del The Bruin, il cinema dove Sharon Tate si reca a vedere The Wrecking Crew (da noi conosciuto come Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), dove Sharon Tate aveva un ruolo.
La sera dell’eccidio di Cielo Drive, Sharon Tate si recò a cena in un ristorante messicano, chiamato El Coyote. Nel film, mentre va a mangiare, l’attrice si rende conto che c’è una premiere in un cinema in fondo alla strada. Si tratta probabilmente dell’Euros Theatre, che all’epoca era un cinema dedicato ai soli film per adulti. Oggi l’Euro Theatre è il Beverly Cinema, molto amato da Quentin Tarantino al punto da diventarne il proprietario. A un certo punto, poi, Cliff supera il leggendario Cinemara. Quest’ultimo, come il The Bruin, esistono ancora oggi.
Avendo scelto come titolo del suo (possibile) penultimo film C’era una volta a Hollywood era chiaro che tanto Hollywood quanto Los Angeles avrebbero avuto la loro importanza. Se Hollywood è stata omaggiata con i cinema e con l’inserimento di alcuni personaggi famosi (come vedremo più avanti), Los Angeles spunta da ogni inquadratura, con la scelta di Quentin Tarantino di inserire alcuni luoghi cult della città degli angeli. Ad esempio Rick incontra il produttore interpretato da Al Pacino da Musso & Frank Grill, presente a Los Angeles dal lontano 1919. Il ristorante ha permesso alla crew di utilizzare i piatti che il locale avrebbe usato nel 1969.
Al Pacino, Brad Pitt e Leo DiCaprio in una scena del film
Altro luogo pienamente riconoscibile è la parete blu davanti alla quale Rick Dalton e la moglie Francesca (Lorenza Izzo) passano dopo essere rientrati a Los Angeles da Roma. La parete è una delle più iconiche dell’aeroporto. Si tratta della stessa che si vede durante i titoli di testa di Jackie Brown. Si tratta di un luogo davvero molto riconosciuto: Jon Hamm ci è passato davanti in un episodio di Mad Men e anche Dustin Hoffman lo ha attraverso in una scena de Il Laureato.
Nel film, inoltre, vediamo Rick Dalton ballare su uno sfondo bianco, sopra la scritta Hullabaloo: si tratta di un vero show che andava in onda negli Stati Uniti negli anni ’60.
Ritornando per un momento ad Al Pacino a lui sono legati due easter eggs non proprio difficili da individuare. Il primo è quando lo vediamo mimare gli spari con un mitra. Il richiamo a Scarface è fin troppo evidente. Il secondo si può vedere quando Al Pacino parla di un film che ha amato e che porta il titolo di The 14 Fists of McCluskey. Mark McCluskey era il capitano della polizia con il quale Michael – il giovane Pacino – aveva un incontro non proprio pacifico nella saga de Il Padrino.
Alla festa di Playboy presentata in C’era una volta a Hollywood, possiamo vedere Damien Lewis che interpreta Steve McQueen. Tarantino ha confermato che l’attore è stato, a sua volta, una grande ispirazione per Rick Dalton, con cui condivide alcune tappe fondamentali della carriera. Proprio come il personaggio interpretato da Leonardo DiCaprio, Steve McQueen ha iniziato la sua carriera nel cinema muovendosi nel genere western. Allo stesso modo, proprio come Rick, McQueen accettò di prendere parte a delle serie, diventando a sua volta un divo del piccolo schermo.
Non è dunque un caso se, all’interno della pellicola, Rick Dalton parla di un provino fatto per La Grande Fuga, film del 1963 di John Sturges, incentrata su un gruppo di prigionieri che cercheranno di evadere da un campo tedesco durante la seconda guerra mondiale. La Grande Fuga fu il film che, probabilmente, sancì il successo di McQueen e lo elevò allo status di star cinematografica. Utilizzando la computer grafica, Tarantino è riuscito a inserire Leonardo DiCaprio in una vera scena del film, sostituendo Steve McQueen.
Piccola nota a margine: in C’era una volta a Hollywood il McQueen di Lewis sembra voler in qualche modo prevedere i problemi che Roman Polanski avrebbe incontrato con la giustizia di lì a pochi anni: il caso di stupro che, ancora oggi, lo costringe su territorio francese. Alla festa, infatti, Steve McQueen dice: un giorno quel coglione polacco farà una cazzata di troppo.
Sempre alla festa di Playboy, Tarantino porta la sua Sharon Tate (Margot Robbie) a condividere la scena con Michelle Phillips e Cass Elliott, due dei quattro componenti dei The Mamas & The Papas, gruppo folk/rock attivo dalla metà degli anni ’60, fino ai primissimi anni ’70. Uno dei singoli più famosi del gruppo è, senza dubbio, California Dreaming, le cui note si disperdono sullo schermo.
Per la notte dell’attacco della famiglia di Charles Manson a Cielo Drive, Quentin Tarantino usa le note di Straight Shooter, singolo dei The Mamas & The Papas utilizzata anche per il trailer di C’era una volta a Hollywood.
Con Bastardi Senza Gloria, C’era una volta a Hollywood condivide l’intento di riscrivere la storia. Alla fine della pellicola, infatti, vediamo la gang di Manson che irrompe in casa di Rick Dalton e viene fermata da Cliff (Brad Pitt), con l’aiuto del suo cane Brandy. In questo modo Sharon Tate, incinta di otto mesi del marito Roman Polanski, ha salva la vita.
Nonostante questo cambiamento, però, ci sono alcuni dettagli della notte dell’omicidio che sono rimasti invariati. Ad esempio il fatto che Tex Watson entrando in casa di Cliff dica: I’m the devil, and I’m here to do the devil’s business. È la stessa frase che l’assassino pronunciò quando irruppe in casa di Sharon Tate.
Riguardo quest’ultima, è davvero incredibile il lavoro che Margot Robbie ha fatto per essere il più vicina possibile ad un ritratto veritiero dell’attrice. In una recente intervista, Margot Robbie ha dichiarato di aver lavorato a stretto contatto con alcuni membri della famiglia Tate, soprattutto con Debra, la sorella di Sharon. Debra Tateha permesso a all’attrice di indossare alcuni gioielli veramente appartenuti alla defunta star.
Margot Robbie è Sharon TateSharon Tate
Margot Robbie, inoltre, viene introdotta lei stessa con un easter egg. Durante i titoli di testa, infatti, vediamo una ragazza bionda, di spalle, che cammina mentre in sovrimpressione viene scritto il nome dell’attrice. La ragazza, che non vediamo in volto, indossa la divisa della compagnia aerea (poi fallita) Panam. Solo qualche fotogramma dopo vediamo la vera Margot Robbie entrare in campo e ci rendiamo conto di aver “seguito” la donna sbagliata. Ciò che interessa è che Margot Robbie era davvero nel cast della serie dedicata alla Panam.
Come forse avete già letto, Charles Manson è interpretato dall’attore Damon Herriman, che è lo stesso che interpreta Manson nella seconda stagione di Mindhunter. Quello che forse non sapete è che al famoso Ranch di Los Angeles il vero Charles Manson incontrò Gary Kent, uno stuntman che ha ispirato il personaggio di Cliff Booth.
Infine Tarantino non ha potuto fare a meno di includere anche alcuni dettagli personali in C’era una volta a Hollywood. Cliff Booth guida una Karmann Ghia, vettura della Volkswagen, che è la stessa guidata dal padre del regista. Inoltre alcuni degli oggetti presenti nella casa di Rick fanno in realtà parte della collezione privata di Quentin Tarantino.
E ora, non vi resta che segnalarci tutti quelli che abbiamo tralasciato. La palla passa a voi, care scimmiette!