Luca Guadagnino torna a governare la macchina da presa con Queer, un progetto ambizioso, complesso, a tratti sfuggente. Si tratta dell’adattamento cinematografico di uno dei testi più crudi e contraddittori della letteratura postuma di William S. Burroughs.
Un romanzo breve, Queer, che puzza di alcol, paranoia e frustrazione, scritto negli anni Cinquanta ma pubblicato solo nel 1985.
Ambientato un’epoca in cui l’omosessualità era un reato da occultare e da espiare, Queer è una confessione traslata e impudica, un flusso di coscienza schizofrenico e sensuale, in cui l’io narrante, alter ego dello scrittore, svela la propria ossessione per un giovane americano incontrato a Città del Messico.
Luca Guadagnino non traduce questo flusso: lo filtra. Lo disinnesca e ne conserva la tensione larvale, la disperazione muta, la ripetizione ossessiva di un sentimento a senso unico.
Un gesto estetico spigoloso, che vive di contraddizioni e attriti, rifuggendo lo spettatore che cerca una narrazione lineare o un’identificazione empatica.
Ciò che emerge in Queer è un’opera visivamente sofisticata ma narrativamente inquietante, dove la macchina da presa sembra pedinare i personaggi più per voyeurismo emotivo che per reale empatia.
Ma se da un lato Queer disorienta e affascina, dall’altro rischia di incagliarsi nella sua stessa bellezza formale. LucaGuadagnino, fedele alla sua cifra stilistica, talvolta si perde in calligrafismi visivi che rallentano la narrazione, sacrificando tensione e profondità emotiva.
L’effetto? Uno spaesamento ipnotico, un film che guarda, e forse ammira, l’eredità perturbante di David Cronenberg e l’onirismo allucinato di David Lynch, pur senza raggiungere la densità visionaria dei due maestri.
Queer, La Trama
Queer si dipana nel Messico degli anni Cinquanta. Lee (Daniel Craig), un americano emaciato, ironico e fragile, vaga tra bar fumosi, strade assolate e stanze d’albergo dai muri scrostati. Ha l’aria di chi ha già rinunciato a ogni cosa.
Si innamora di Eugene Allerton (Drew Starkey), giovane ex-militare, bello e inaccessibile. Lee lo segue, lo osserva, lo desidera. Ma il desiderio, in Queer, è sempre unidirezionale. Non c’è mai reciprocità, solo anelito. L’amore è attesa. Ossessione. Malinteso.
Luca Guadagnino costruisce Queer su questa tensione asimmetrica. Lee non cerca solo Allerton. Cerca un senso, un conforto, un’identità che gli sfugge tra le dita. L’intero impianto narrativo è costruito sull’assenza: di contatto, di affetto, di risposta.
È l’inizio di un’ossessione che cresce come un’infezione silenziosa.
Queer, La Recensione
Queer non è una storia d’amore, bensì la cronaca sensoriale di un’attrazione sbilanciata, muta, inconfessabile. Un rapporto di sguardi, distanze, attese mai colmate, che diventa lentamente una spirale psicologica.
Lo spettatore è chiamato a seguire questo movimento circolare, che più che svilupparsi sembra avvitarsi su sé stesso, in una progressiva dissoluzione della coerenza narrativa.
Luca Guadagnino sfugge alla cronologia lineare e abbraccia una temporalità emotiva, fatta di ellissi, salti, ripetizioni. In Queer il tempo non scorre: ristagna. E in questo pantano emotivo, ogni gesto assume un peso simbolico.
In Queer, il desiderio non è mai una spinta verso la vita. Non è crescita, non è scoperta, non è libertà. È un peso. Una morsa. Un serpente silenzioso che si avvolge attorno al cuore del protagonista e lo stringe, lentamente, senza pietà.
Il corpo, in Queer, non è mai un luogo di piacere, ma un campo di battaglia. Il tocco è raro, ambiguo, spesso unilaterale. Il desiderio che attraversa il protagonista non trova sbocco, e quando lo trova, è in forme disfunzionali, quasi autolesioniste.
Luca Guadagnino esplora qui non l’ebbrezza dell’amore, ma il suo rovescio oscuro: la vulnerabilità, il bisogno disperato di essere visti, il terrore costante del rifiuto. E soprattutto, la vergogna.
Lee è un personaggio che non lotta per ottenere qualcosa, ma per non soccombere. La sua ossessione per Allerton non è un gesto romantico, ma una strategia inconscia per non precipitare.
E infatti, Queer si costruisce su questo continuo tentativo di proiettare fuori da sé un desiderio che altrimenti imploderebbe, divorando l’identità già fragile del protagonista.
L’intero impianto simbolico di Queer gravita attorno al concetto di invisibilità. Il protagonista è un uomo che esiste solo nello sguardo dell’altro. Ma quando quell’altro non ricambia, o peggio, ignora, la dissoluzione è inevitabile. In questo senso, il film si muove su una soglia costante tra visibilità e sparizione. Tra esistere e svanire.
Luca Guadagnino costruisce Queer con la precisione quasi ossessiva di un architetto, delineando uno spazio cinematografico che non si limita a rappresentare, ma agisce: crea distanza, accentua l’ambiguità, guida lo sguardo verso l’inaccessibile.
La regia non accompagna mai lo spettatore per mano, ma lo lascia smarrirsi in corridoi visivi stretti, in stanze affollate e silenziose, in ombre che divorano metà dei volti.
La fotografia di Queer, firmata da Sayombhu Mukdeeprom, già collaboratore di Guadagnino in Call Me by Your Name, rinuncia alle tinte pastello della dolcezza giovanile per abbracciare una tavolozza più torbida, terrosa, notturna.
I colori in Queer sono densi, saturi di un’energia trattenuta: ocra, blu petrolio, marroni corrosi dal sole messicano. La luce è morbida ma inquieta, taglia gli spazi come una lama sottile, spesso proveniente da fonti artificiali (neon, lampade, insegne) che non scaldano mai davvero la scena.
Particolarmente significativi sono i piani sequenza, che Luca Guadagnino impiega non tanto per virtuosismo tecnico quanto per esasperare la sensazione di sospensione. In questi momenti, lo spettatore si sente intrappolato nel tempo del personaggio, costretto a vivere con lui l’imbarazzo, l’attesa e la frustrazione.
E proprio in questa esasperazione stilistica di Queer si annidano anche alcune criticità: in alcuni momenti, l’eleganza formale rischia di soffocare l’urgenza emotiva.
Luca Guadagnino, affascinato dalla bellezza dell’inquadratura perfetta, sembra talvolta dimenticare la carne viva della storia. Lo sguardo estetizzante può creare distanza, raffreddare l’empatia e trasformare il dolore in ornamento.
In certi momenti, l’estetica impeccabile di Queer rischia di diventare decorativa, quasi manieristica. È un rischio calcolato, ma che può allontanare chi cerca un impatto più viscerale e meno raffinato.
Daniel Craig, nei panni di Lee, offre forse la sua interpretazione più radicale, più vulnerabile, e decisamente più lontana dal suo passato cinematografico. Dopo anni passati a incarnare personaggi forti, contenuti, spesso idealizzati come icone di mascolinità (su tutti James Bond), Craig qui si spoglia, metaforicamente e letteralmente, di ogni corazza.
Il corpo di Daniel Craig in Queer diventa quasi disfunzionale: contratto, imbarazzato, sempre in lotta con sé stesso. Siamo lontani dalla fisicità plastica dei suoi ruoli d’azione: qui il corpo non è arma, ma sintomo.
Il personaggio di Eugene Allerton (Drew Starkey) incarna perfettamente la figura dell’oggetto del desiderio: bellissimo, sfuggente, enigmatico. Il suo silenzio è carico di significati contraddittori, e la sua presenza scenica amplifica la frustrazione di Lee e dello spettatore.
La fotografia di Queer, curata da Sayomphu Mukdiphrom, adotta un’impostazione iper-stilizzata che richiama il cinema di David Lynch nei suoi momenti più evocativi. La luce, spesso artificiale, restituisce volti pallidi, sguardi bui e ombre profonde che inghiottono i personaggi.
Nei momenti diurni, è quasi sempre zenitale, cruda, inospitale. Quando cala la notte, invece, ogni angolo si popola di zone d’ombra che ingabbiano i corpi. È un linguaggio visivo che non offre mai riparo.
Dal punto di vista più tecnico, la regia si affida a movimenti di camera lenti, spesso fluidi, mai frenetici. Non ci sono stacchi violenti in Queer, né movimenti bruschi. Anche nelle scene di maggiore tensione emotiva, tutto è trattenuto.
A volte, si ha la sensazione che Luca Guadagnino non voglia sporcarsi le mani, che preferisca la sublimazione all’impatto. In alcuni momenti, ci si chiede: dov’è la rabbia? Dov’è la vertigine? Dove sono la carne, il rischio, la vulnerabilità esplicita?
Queer non racconta un amore, ma un’ossessione disidratata, priva di urla ma piena di eco. Il film è un’esperienza di incompletezza emotiva: niente è pienamente consumato, risolto, accettato. Lee non trova una redenzione, né uno scontro catartico.
C’è solo un movimento continuo e disilluso verso un altro, un altro che resta sempre un’ombra, un miraggio, una promessa non mantenuta. È in questo scarto, tra ciò che si desidera e ciò che si può avere, che si iscrive la poetica del film.
Queer non chiede di essere compreso, ma di essere attraversato. Come una cicatrice sulla pelle del desiderio, resta lì a ricordarci che certe mancanze non si colmano: si portano, si ascoltano e si sopportano in silenzio.