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Quando lo schermo si oscura e l’eco di una realtà distorta ci assale, capiamo che siamo tornati nell’universo di Black Mirror.
Ecco la nostra recensione della settima stagione di Black Mirror, serie creata da Charlie Brooker
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Quando lo schermo si oscura e l’eco di una realtà distorta ci assale, capiamo che siamo tornati nell’universo di Black Mirror.
La settima stagione di Black Mirror approda su Netflix e si erge come un monolite nero nella serialità contemporanea, pronto a riflettere, distorcere, esasperare i fantasmi dell’era digitale.
Non è un monito sussurrato, ma un grido abissale che penetra il nostro immaginario e scava nella coscienza collettiva.
Ogni episodio di Black Mirror si fa specchio rotto, frammentato, attraverso cui guardiamo noi stessi: non più umani, ma prodotti, estensioni, funzioni di un sistema binario che ci seduce e ci consuma.
Il ritorno di Charlie Brooker ci accoglie con una malinconia nuova, carica di silenzi e ferite, come se volesse sussurrarci che la vera distopia non è nel futuro che ci attende, ma nell’anima che abbiamo lasciato indietro.
Non è nostalgia, non è revival: è un’esplorazione rinnovata di ciò che ci definisce quando lo specchio si rompe e ogni riflesso diventa un enigma.
Black Mirror si presenta come un crocevia sentimentale, dove il dolore e il ricordo battono forte quanto le implicazioni tecnologiche.
È meno futuristica, più intima. Meno algoritmica, più umana. Ed è proprio in questa svolta che risiede la sua potenza.
A confronto con le stagioni di Black Mirror più celebrate questa settima iterazione si colloca come un’opera di maturità. Non rincorre più la novità tecnica, ma affina lo sguardo sulla condizione umana, trasformando ogni episodio in un requiem emozionale.
Seppure non tutti i frammenti brillano allo stesso modo, le punte di diamante della stagione (come l’episodio che rielabora la perdita attraverso un’intelligenza artificiale empatica, o quello che destruttura la memoria in modo struggente) si impongono come tra i più toccanti.
Al contrario, alcuni episodi tentano di ripercorrere vecchie strade senza trovarne più il battito, risultando più manieristici che incisivi. Qui la serie inciampa nella prevedibilità, perdendo quel senso di sorpresa e inquietudine che ne ha fatto un cult.
Tuttavia, ciò che resta impresso della settima stagione di Black Mirror è la rinnovata capacità di Brooker di parlarci non dell’avvenire, ma dell’eterno: la paura di dimenticare, la fame di connessione, la vertigine dell’abbandono.
La settima stagione di Black Mirror non è la più innovativa, ma forse è la più autentica. Ed è proprio questa la sua forza.
Brooker ci consegna un manifesto aggiornato della condizione post-umana. L’identità è il centro nevralgico attorno a cui ruotano le sei nuove storie: identità personale, sociale, digitale.
La memoria, intesa come estensione e alterazione del ricordo, diventa il campo di battaglia di un’umanità smarrita. Gli algoritmi si fanno totem, idoli in grado di prevedere, dirigere e infine sostituire il pensiero umano.
Siamo di fronte a un nuovo culto, dove la fede non è più riposta in un Dio, ma nei dati. E così Black Mirror esplora con lucidità disturbante i confini sempre più porosi tra ciò che siamo e ciò che ci viene detto di essere.
Ogni episodio è una variazione sul tema dell’alienazione: alienazione da sé, dagli altri, dalla verità. A tratti, sembra quasi che Black Mirror voglia mettere in scena un requiem per l’empatia, come se ci stessimo avvicinando a una società che ha smarrito il concetto stesso di “sentire”.
Un personaggio dice, quasi sottovoce: “Non sono sicuro se queste emozioni siano mie o solo simulate bene.” È un frammento, ma vibra come un colpo sordo nel petto. Quante volte ci chiediamo se ciò che proviamo è autentico o solo una risposta appresa, automatica, condizionata?
C’è una costante tensione tra controllo e abbandono, tra volontà e programmazione. Black Mirror sembra sussurrare: e se non ci fosse più distinzione? Se il libero arbitrio fosse solo un’illusione elegante, un racconto di conforto che ci raccontiamo per sopportare l’abisso?
Charlie Brooker non predica. Non è mai un moralista. La sua arte è lucida, chirurgica, e nel raccontare queste parabole ci regala un linguaggio potente, quasi lirico. L’estetica della settima stagione di Black Mirror è sofisticata: ombre liquide, colori saturi che esplodono nei momenti chiave.
Ogni episodio di Black Mirror è girato con uno stile visivo distinto, dove si alternano registi come Ally Pankiw, David Slade e Toby Haynes, ognuno portatore di una firma precisa, capace di restituire tensione e bellezza estetica.
A livello tecnico, la fotografia di Black Mirror assume un ruolo centrale: si gioca con l’alternanza tra tonalità fredde e calde, tra profondità di campo che isolano il soggetto e movimenti di macchina fluide e inquietanti, come se lo sguardo stesso della cinepresa fosse un’entità senziente.
Il montaggio predilige il ritmo lento e contemplativo, costruendo attese e silenzi che esplodono in climax emotivi potenti.
Il cast della settima stagione di Black Mirror è di altissimo livello: tra gli interpreti spiccano nomi come Paul Giamatti, Peter Capaldi ed Emma Corrin, che riescono a donare autenticità a ruoli altrimenti votati all’astrazione concettuale.
Le loro performance sono calibrate, intense, mai sopra le righe: incarnano l’inquietudine, il rimorso, la nostalgia e la rabbia con una precisione che taglia lo schermo. È un tipo di recitazione che non cerca l’effetto, ma l’affondo.
Se si dovesse racchiudere l’essenza della settima stagione di Black Mirror in un’unica parola, sarebbe sentimento. Sì, sorprendentemente, tra glitch tecnologici e realtà simulate, ciò che resta impresso è la centralità delle emozioni.
Paradossalmente, questa è forse la stagione più “umana” mai realizzata. Non tanto per il modo in cui tratta il futuro della tecnologia, ma per come scava nelle costanti emotive dell’esistenza: la paura di essere dimenticati, il bisogno di connessione, il dolore del rimpianto.
La struttura episodica di Black Mirror, ormai divenuta marchio di fabbrica, continua a garantire libertà di esplorazione, ma anche coerenza tematica. I sei episodi sono scollegati nella trama, ma connessi nel tono, nel pathos, nel messaggio. È come se Brooker ci offrisse sei variazioni dello stesso accordo dissonante, ognuna con un timbro diverso ma riconoscibile.
La forza di questa stagione non sta nella critica alla tecnologia, un tema che ormai rischia la saturazione, ma nel ricordare che le emozioni restano, che la struttura del cuore umano non cambia anche quando il mondo attorno implode e si reinventa. Siamo ancora esseri che ricordano, che rimpiangono, che amano.
Black Mirror non offre risposte. Non si fa portatrice di messaggi rassicuranti, ma ci costringe a guardare nel nero, nel vuoto di uno specchio che non riflette ma assorbe. Ci chiede chi siamo, chi vogliamo essere, e quanto siamo disposti a cedere di noi stessi pur di appartenere a un mondo sempre più digitale.
C’è bellezza in questo orrore, come se l’estetica del trauma ci rendesse più vivi. C’è poesia nel codice binario, se siamo disposti ad ascoltarla.
La settima stagione di Black Mirror è uno spartiacque, non per ciò che dice sulla tecnologia, ma per ciò che svela su di noi. E ci lascia con una domanda che pulsa nella mente, come un bug nella realtà: se potessi spegnere lo specchio, lo faresti davvero?
Gente Comune, Ally Pankiw
Bestia Nera, Toby Haynes
Hotel Reverie, Haolu Wang
Come Un Giocattolo, David Slade
Eulogy, Chris Barrett & Luke Taylor
Uss Callister: Infinity, Toby Haynes