Gian Maria Volontè: il più grande attore italiano di sempre

Un viaggio nella carriera di Gian Maria Volontè, il più grande attore italiano di sempre

gian maria volontè
Condividi l'articolo

Un viaggio nel genio di Gian Maria Volontè

Seguiteci sempre anche su LaScimmiaPensa e iscrivetevi al nostro canale WhatsApp!

Gian Maria Volonté non è stato solo un attore: è stato un uragano etico, una voce della coscienza civile, un artista che ha trasformato il mestiere dell’interprete in una missione. Nato a Milano il 9 aprile 1933, cresciuto a Torino in un’Italia lacerata, visse sin da giovane il peso della Storia: figlio di un ufficiale fascista, scelse una strada opposta, quella dell’impegno, della verità, della ribellione.

Dalla gavetta teatrale alle scuole di recitazione romane, ogni tappa fu un atto di costruzione consapevole. Si fece conoscere per il suo rigore assoluto, la dedizione maniacale al personaggio, la capacità di fondere carne e pensiero sullo schermo. Dopo il successo popolare con Per un pugno di dollari, rifiutò la via facile del divismo e scelse film che graffiavano la società: Todo Modo, La classe operaia va in paradiso, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

Uomo scomodo, attore totale, militante dell’arte: partecipò a scioperi, spettacoli censurati, proteste pubbliche. Sempre coerente, sempre fedele a se stesso. Morì nel 1994 durante le riprese di un film, come se la vita e il cinema non avessero mai potuto separarsi.

Volonté non ha recitato: ha lottato, ha gridato, ha lasciato un’impronta incancellabile. Ancora oggi, ogni volta che lo rivediamo in un film, ci ricorda che il cinema può essere un atto di resistenza. Lo omaggiamo parladovi di alcuni dei suoi lavori più rappresentativi

Per un Pugno di dollari, Sergio Leone, 1964

image 113

Quando si parla di Per un pugno di dollari il primo titolo della leggendaria Trilogia del dollaro di Sergio Leone, è facile pensare subito a Clint Eastwood e al suo iconico Uomo senza nome. Ma uno degli elementi più affascinanti del film è senza dubbio l’interpretazione di Gian Maria Volonté, nel ruolo del crudele e ambiguo Ramón Rojo.

Con il suo incredibile carisma, Volontè porta nel film una carica emotiva e una presenza scenica che si distaccano dalla classica figura del “cattivo” da western americano. Il suo Ramón è carismatico, intelligente, imprevedibile. Un villain a tutto tondo, che riesce a rubare la scena anche al protagonista.

Gian Maria Volonté, costruisce il personaggio con sfumature teatrali, ma mai caricaturali, regalando al western all’italiana un antagonista complesso e tragicamente umano. La sua interpretazione contribuisce in modo decisivo al tono cupo e realistico che ha reso il film un capolavoro del genere.

Nel panorama del cinema western e più in generale della storia del cinema italiano, la prova attoriale di Gian Maria Volonté in Per un pugno di dollari è considerata una pietra miliare. Un esempio di come si possa costruire un personaggio memorabile anche in un ruolo negativo, con un’interpretazione che rimane impressa nella memoria dello spettatore.

Al cuore, Ramòn, al cuore.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Elio Petri, 1970

image 108

Anni ’70. Anni di proteste e tumulti. I movimenti sessantottini sono freschi e la fiducia nelle istituzioni è ai minimi storici. C’è terrorismo rosso e nero e il caos regna sovrano. E qui che, tra le interpretazioni più folgoranti del cinema italiano di questo periodo, quella di Gian Maria Volonté in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) rappresenta un vertice assoluto. Diretto da Elio Petri, il film è una feroce satira politica, ma è la performance di Volonté a dare corpo e complessità a un personaggio che incarna il potere istituzionale in tutta la sua ambiguità.

Volonté interpreta un dirigente di polizia che per tutto il corso della pellicola non avrà mai un nome, che uccide la propria amante e tenta di coprire il crimine, convinto che il suo ruolo lo renda intoccabile. L’attore costruisce il personaggio con una precisione maniacale: la postura rigida, la voce controllata, lo sguardo che oscilla tra freddezza e fanatismo. Ogni gesto trasmette una tensione interna costante, come se il commissario fosse sempre sul punto di esplodere sotto il peso della propria arroganza paranoica.

Ciò che rende straordinaria questa interpretazione è la capacità di Gian Maria Volonté di restituire l’ideologia attraverso la fisicità. Non è solo un uomo, ma una maschera tragica del potere, un simbolo vivente della sua impunità. In questo film, come spesso gli accade, Volonté non recita: incarna. Trasforma il proprio corpo in uno strumento politico, mostrando come l’autorità si esprima non solo con le parole, ma con il controllo ossessivo della presenza scenica.

LEGGI ANCHE:  Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Emblematico è il monologo finale, dove il commissario si consegna, paradossalmente, alla giustizia, cercando una punizione che non arriverà. In quel momento, Volonté scava nel delirio del personaggio, lasciando affiorare una follia lucida, disperata, quasi religiosa. È un’esplosione di pathos che chiude il film su una nota di profonda inquietudine. Emblematica e rappresentativa la citazion conclusiva:

Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano

La forza della sua performance risiede anche nella totale mancanza di compiacimento. Gian Maria Volonté non cerca mai di “piacere” allo spettatore: semmai, lo sfida, lo provoca, lo mette a disagio. In linea con il suo impegno politico e civile, l’attore rifiuta ogni forma di spettacolarizzazione, preferendo un realismo che sa farsi disturbante.

In un film che parla del potere come meccanismo autoritario e autoreferenziale, Gian Maria Volonté riesce a umanizzare l’astrazione, dando un volto – e una voce – al terrore silenzioso delle istituzioni deviate. Il risultato è una performance che ancora oggi conserva una forza intatta, capace di interrogare lo spettatore con la stessa urgenza di allora.

La Classe Operaia va in Paradiso, Elio Petri, 1971

image 109

Ci sono interpretazioni che non si dimenticano, non perché spettacolari, ma perché vere fino a far male. Gian Maria Volontéin La classe operaia va in paradiso di Elio Petri è una di queste. Non veste i panni di Lulù Massa: li consuma, li lacera, ci si confonde fino a diventare irriconoscibile. È la rappresentazione fisica e psicologica della frattura tra l’uomo e il suo lavoro, l’alienazione ridotta a gesto, voce, sguardo. Una delle performance più radicali del cinema italiano.

Lulù è un operaio modello, un uomo che ha fatto del rendimento la sua religione. Lavora a cottimo, è il più veloce, il più apprezzato dai padroni. Ma dietro l’apparente successo c’è il vuoto: un’esistenza deprivata di relazioni autentiche, di tempo libero, di desideri. Volonté rende tutto questo con una forza quasi disturbante: il suo volto è teso, il corpo nervoso, la voce sempre al limite della rottura. Ogni scena è un frammento di un’esplosione emotiva più grande, che cova sotto la pelle.

Ciò che colpisce è la complessità con cui l’attore costruisce il personaggio. Lulù non è un simbolo puro: è arrogante, a tratti sgradevole, convinto del proprio ruolo di “motore” della fabbrica. Ma man mano che il film procede e il suo corpo inizia a cedere — insieme alla sua psiche —, emergono le crepe. Gian Maria Volonté passa dalla rabbia al panico, dal cinismo al pianto sommesso, sempre in bilico tra la consapevolezza della propria condizione e l’impossibilità di cambiarla davvero.

La sua trasformazione è totale e progressiva. Si spezza fisicamente (memorabile la sequenza dell’incidente alla macchina), si allontana dalla famiglia, si disintegra emotivamente. E Volonté riesce a rendere ogni fase con una verità spiazzante. Non ci sono eccessi, solo la nudità di un uomo che scopre di essere stato ridotto a ingranaggio, e che — anche dopo la ribellione — resta solo, confuso, forse definitivamente perduto.

Il film è un’opera lucida e spietata, ma è la performance di Volonté a imprimere il messaggio nella carne dello spettatore. Non è solo una denuncia del lavoro alienante: è il ritratto di un’identità smarrita. E questo smarrimento, questo sguardo vuoto di chi non sa più dove sta andando, è ciò che rende Lulù Massa una figura indimenticabile.

Gian Maria Volonté non interpreta: si consuma. Ed è questo, forse, il segreto della sua grandezza.

Sacco e Vanzetti, Giuliano Montaldo, 1971

image 112

In Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, Gian Maria Volonté firma una delle sue interpretazioni più memorabili, incarnando Bartolomeo Vanzetti con una profondità emotiva e politica rara nel cinema italiano. Il film racconta l’arresto e la condanna a morte dei due anarchici italiani negli Stati Uniti degli anni ’20, vittime di un processo costruito su pregiudizi ideologici e xenofobi. Ma è grazie alla prova attoriale di Volonté che la pellicola trascende la cronaca per diventare un atto di denuncia universale.

LEGGI ANCHE:  Per un pugno di dollari

Gian Maria Volonté restituisce un Vanzetti dignitoso, lucido, mai retorico. Un uomo consapevole del proprio destino, ma anche del significato più ampio della sua condanna. Il suo sguardo, spesso fisso, assorto, racconta più delle parole: è lo sguardo di chi ha compreso che l’ingiustizia non è un errore del sistema, ma il sistema stesso.

Il momento più alto della sua performance arriva nel celebre monologo finale in tribunale, una delle scene più potenti del cinema di impegno civile. Volonté lo recita con fermezza e dolore trattenuto, trasformando le parole di Vanzetti in una dichiarazione morale eterna. È una scena che non si dimentica, in cui l’attore riesce a comunicare insieme rabbia, amarezza e fierezza. Non c’è enfasi teatrale, solo verità umana.

Accanto a Riccardo Cucciolla (premiato a Cannes per la sua interpretazione di Sacco), Volonté sceglie deliberatamente un passo più indietro, con generosità e intelligenza. Ma il suo Vanzetti è il cuore politico del film. Montaldo costruisce l’intera regia attorno alla loro vicenda, con uno stile sobrio e teso, ma è il volto di Volonté che resta impresso: un volto che soffre, resiste e parla per tutti.

Gian Maria Volonté non interpreta un martire, ma un essere umano che diventa simbolo senza mai perdere la sua autenticità. È questa la grandezza del suo lavoro: rendere il personaggio vivo e reale, e allo stesso tempo icona di una lotta più grande. In poche parole, una prova che rappresenta il meglio di ciò che può essere il cinema quando si fa coscienza e memoria.

Todo Modo, Elio Petri, 1976

image 110

In Todo modo di Elio Petri, Gian Maria Volonté offre una delle sue interpretazioni più intense e complesse, dando vita al personaggio del presidente, un politico ambiguo intrappolato in un sistema di corruzione. Ambientato in una casa di esercizi spirituali, il film dipinge un gruppo di politici in preda a una lotta per il potere, con il presidente che rappresenta l’epitome di un sistema ormai marcio e in decadenza.

Gian Maria Volonté, con il suo approccio psicologico e sottile, costruisce un personaggio che appare sempre controllato, ma che nasconde una crescente angoscia. La sua interpretazione si basa sulla tensione tra il comportamento pubblico del presidente, apparentemente razionale e carismatico, e il conflitto interiore che lo consuma. Ogni sguardo e gesto di Volonté è misurato per esprimere un disagio che emerge lentamente, suggerendo il disfacimento morale di un uomo che sa di essere parte di un meccanismo destinato al collasso.

La sua presenza scenica è magnetica, ma mai sopra le righe: Gian Maria Volonté sa dosare il silenzio e l’intensità emotiva per rivelare le sfumature di un personaggio tormentato dalla consapevolezza della propria corruzione. In particolare, il presidente di Volonté non è solo un uomo di potere, ma una figura simbolica della classe politica italiana degli anni ’70, destinata a soccombere sotto il peso delle proprie contraddizioni.

L’attore costruisce un personaggio che, pur cercando di mantenere il controllo, è inevitabilmente trascinato dal caos che lo circonda. Il contrasto tra la sua calma apparente e il tumulto che cresce attorno a lui è palpabile, e la sua performance raggiunge il culmine nelle scene più drammatiche, in cui il presidente si confronta con la realtà della sua decadenza morale.

La forza della performance di Gian Maria Volonté sta nella capacità di suggerire più di quanto venga esplicitamente mostrato: ogni sua scelta interpretativa comunica il conflitto tra un uomo che, pur consapevole della sua corruzione, rimane intrappolato nel suo ruolo. La sua performance non è solo una grande prova attoriale, ma anche una riflessione sull’inevitabile destino di chi esercita il potere in un sistema corrotto.

In questo modo, Gian Maria Volonté riesce a fare del presidente un personaggio emblematico, che trascende il ruolo di semplice politico per diventare simbolo di una classe dirigente destinata a perire sotto il peso della propria ipocrisia. La sua performance è un esempio di come il cinema possa esplorare le sfumature della moralità e del potere con profondità e lucidità.

Che ne pensate? Qual è la performance di Gian Maria Volonté che preferite?