Valerio Mastandrea con Nonostante torna a ricoprire le vesti di regista dopo il suo esordio nel 2018. Già allora il suo sguardo si mostrava intimo, attento al dolore sommerso, al non detto che abita le relazioni familiari.
Se, però, Ride metteva a fuoco il trauma e il senso di colpa nel quotidiano di un lutto vissuto nello smarrimento di chi si sente inadeguato persino alla sofferenza; Nonostante ci trasporta in una zona liminare dell’esistenza, dove la malattia è una metafora dell’anestesia affettiva, in cui il silenzio non è solo vuoto, ma un abisso che ti inghiotte. Un momento in cui la vita smette di toccarti, diventando un’ombra che si allunga fino a svanire.
Nonostante di Valerio Mastandrea, presentato in anteprima alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Veneziacome film d’apertura della sezione Orizzonti, non ti racconta una storia: ti costringe a vivere un’assenza, a respirare la paura di non essere più vivi. Non ci sono parole a colmare le mancanze, solo sguardi, incomunicabilità , respiri. Eppure, è proprio in quella rassegnazione che qualcosa di straordinario accade.
Nonostante, la Trama
Nonostante parla di un uomo che ha smesso di cercare, la cui vita scorre senza più rumore, persa tra i corridoi di un ospedale che sembra non appartenere a nessun luogo, ma solo a una condizione dell’anima. Il suo corpo è prigioniero di una quiete profonda, la sua vita segnata da un silenzio che avvolge ogni respiro.
La regia di Mastandrea è fatta di pudore e profondità . Ogni inquadratura è pensata per lasciare spazio al vuoto, al tempo che passa, al peso del silenzio. Il suo sguardo è compassionevole ma mai indulgente.
La scrittura, in collaborazione con Enrico Audenino, è essenziale, chirurgica, poetica. Nessuna parola di troppo, nessun monologo. I dialoghi sono sussurri tra due cuori rotti, una danza fragile e struggente.
In Nonostante la luce è sempre filtrata, sospesa, come se lo spettatore osservasse tutto attraverso un velo sottile di garza, come in un sogno da cui non si vuole del tutto svegliarsi. Le immagini sembrano fluttuare in uno stato di sospensione onirica.
C’è un’inquadratura che resta impressa: un corridoio illuminato solo da una flebile luce verde-azzurra, simile a quella di una sala operatoria abbandonata, che taglia la scena come una lama tra carne e tempo.
Stanze asettiche, finestre che non mostrano mai l’esterno: la visione è chiusa, intima, claustrofobica. Ogni elemento scenografico è funzionale al racconto dell’interiorità .
La colonna sonora di Tóti Gudnason è una tessitura delicata che emerge nei momenti chiave, mai invasiva, ma sempre necessaria. I rumori ambientali sono amplificati: passi, respiri, letti che cigolano. È il silenzio, però, a fare da protagonista. Un silenzio che parla, che pesa, che dice più di mille battute.
C’è una scena, in particolare, in cui il protagonista siede accanto a un letto vuoto, le mani appoggiate sulle ginocchia, lo sguardo perso nel vuoto. Nessuna musica, nessun clamore. Solo il ticchettio lontano di un orologio e il battito ovattato del suo stesso cuore. In quel vuoto sonoro, il dolore si fa tangibile, quasi si può sentire il rumore dell’anima che si incrina.
In Nonostante l’ospedale come metafora è estremamente potente. È un posto dove si aspetta, dove si subisce, dove si spera e si muore. Non è un luogo di guarigione, ma di accettazione. I pazienti sono sospesi, i medici figure evanescenti. La realtà si piega, si trasforma, si fa sogno, incubo, ricordo.
Mastandrea dirige se stesso con uno sguardo spietato. Il suo personaggio è l’uomo che ha rinunciato, ma che non riesce a smettere di sentire. La donna è interpretata da una Dolores Fonzi viva, dolorosa, potente. Attorno a loro ruotano figure straordinarie: Laura Morante, Lino Musella, Giorgio Montanini. Nessuno sovrarecita. Tutti respirano insieme al film.