Wong Kar-wai gioca con l’assenza, con il non detto, con la tensione sottile tra due persone che si amano, ma che non possono appartenersi, condannati a essere solo due anime che si sfiorano senza mai toccarsi davvero. La sua regia è fatta di gesti ripetuti, inquadrature fisse e parziali, movimenti rallentati, dialoghi frammentati.
Attimi sospesi in cui i protagonisti vivono il loro amore senza mai dichiararlo apertamente, dove è raro che condividano l’inquadratura interamente, come se il destino li tenesse sempre a distanza. I riflessi nei vetri, nei corridoi, nelle finestre, creano un senso di separazione anche nei momenti più intimi. Il film è un’esplosione di rosso, oro e verde scuro, colori che richiamano la bramosia trattenuta, la passione soffocata.
La colonna sonora è essenziale per il tono del film, una melodia malinconica che si ripete più volte e accompagna i due protagonisti nei loro incontri fugaci. Un film che trasforma l’amore in poesia visiva, in cui ogni sguardo, ogni passo, ogni vestito diventa parte di una danza emotiva tra desiderio e repressione.
Lost in translation (L’amore tradotto), Sofia Coppola, 2003:
Aug 29, 2003; Hollywood, CA, USA; SCARLETT JOHANSSON as Charlotte and BILL MURRAY as Bob Harris in the dramatic comedy Lost
Sofia Coppola costruisce un’opera visiva ed emotiva che racconta l’amore con una grazia impalpabile, evitando gli eccessi, i gesti teatrali, le dichiarazioni eclatanti. È l’amore sospeso, mai urlato. È l’amore che esiste nel non detto, nei piccoli silenzi condivisi e negli sguardi complici; è un sussurro in un orecchio, una carezza leggera che sfiora l’anima senza mai afferrarla davvero. Bob Harris (Bill Murray), attore americano in declino, si trova a Tokyo per girare uno spot pubblicitario.
È spaesato, stanco, distante dalla sua vita. Charlotte (Scarlett Johansson), una giovane donna neolaureata in filosofia, accompagna il marito fotografo in un viaggio di lavoro ma si sente persa, trascurata e confusa sul suo posto nel mondo. Si incontrano per caso in un hotel di lusso, il Park Hyatt Tokyo. Due estranei, eppure profondamente simili nella loro solitudine, quella stessa solitudine da cui nasce un legame profondo, una connessione più intima di qualsiasi relazione fisica.
Sofia Coppola e il direttore della fotografia Lance Acord creano un’estetica che è già di per sé una dichiarazione d’intenti: il film si muove tra i toni pastello, le luci soffuse, le trasparenze delle grandi finestre dell’hotel. La Tokyo di notte, pulsante di neon, contrasta con gli spazi ovattati delle camere d’albergo, dove i personaggi si muovono in un mondo di intimità sussurrata. L’uso costante di piani fissi e lenti movimenti di macchina favorisce l’impressione che i protagonisti siano osservati da lontano, quasi fossero anime alla deriva in una città troppo grande.
Bob e Charlotte vengono spesso ripresi di spalle o riflessi nei vetri, un modo per suggerire la loro estraneità dal mondo che li circonda, e anche da sé stessi. La colonna sonora, curata da Brian Reitzell e Kevin Shields, è un altro strumento di narrazione. È eterea, rarefatta, fatta di brani dream pop e ambient che sembrano provenire da un mondo parallelo, proprio come i protagonisti. I dialoghi sono ridotti all’osso, spesso frammentati, un minimalismo che aumenta la forza del non detto, in cui ogni verbo pesa e ogni silenzio comunica. È un film sull’amore che rimane negli occhi, anche dopo che le parole sono svanite. Perché a volte, l’amore più profondo è quello che non si consuma mai.
Se mi lasci ti cancello (Eternal sunshine of the spotless mind), Michel Gondry 2004):
Questo film è un viaggio nella mente umana, un puzzle emotivo e visivo che destruttura il concetto stesso di amore, memoria e perdita. Lo racconta non attraverso i suoi momenti perfetti, ma attraverso i suoi difetti, le sue cicatrici, i suoi addii. Il regista Michel Gondry e lo sceneggiatore Charlie Kaufman costruiscono un’opera cinematografica unica nel suo genere, dove la narrazione segue una logica onirica, il montaggio è frammentato, e la regia si muove tra il realismo e il surreale.
La storia segue Joel (Jim Carrey), un uomo introverso che scopre che la sua ex fidanzata, Clementine (Kate Winslet), si è sottoposta a un trattamento per cancellare dalla memoria la loro relazione. Ferito e confuso, decide di fare lo stesso. Ma durante il processo, mentre rivive i ricordi del loro amore dal più recente al più remoto, si rende conto di non voler dimenticare.
Così inizia una corsa disperata all’interno della sua stessa mente, cercando di nascondere Clementine nei recessi più profondi dei suoi ricordi. Il film è un labirinto temporale, dove la loro relazione è destinata a ripetersi, in un ciclo eterno di amore, perdita e speranza. il film vuole farci capire che l’amore non è fatto solo di momenti felici, ma anche di difetti e difficoltà. Cancellare il dolore significa cancellare anche ciò che ci ha resi chi siamo.
Alla fine, Joel e Clementine si incontrano di nuovo e, pur scoprendo di essersi già lasciati in passato, decidono comunque di riprovarci. Forse l’amore non è destinato a durare, ma vale sempre la pena di essere vissuta.
La persona peggiore del mondo (Verdens verste manneske), Joachim Trier, 2021:
Joachim Trier regala al cinema un’opera che si muove con grazia ed empatia nei territori più intricati dell’amore contemporaneo. È un film che non teme la complessità dei sentimenti, che non offre risposte facili e che rifugge qualsiasi idea convenzionale di relazione romantica. Qui, l’amore si declina come ricerca personale, smarrimento e, soprattutto, scelta. Non ci sono fiabe né eroi. Ecco la poetica spietata ma tenerissima di Trier: un ritratto di un amore imperfetto, reale, profondamente umano.
Il film segue Julie (Renate Reinsve), una trentenne che vive a Oslo, in un periodo della sua vita dove tutto è ancora possibile e niente è davvero certo. Julie cambia studi, lavori, amanti, passioni e, come spesso accade, si trova combattuta tra due uomini: Aksel (Anders Danielsen Lie), un fumettista affermato, più maturo e radicato, e Eivind (Herbert Nordrum), un barista che rappresenta leggerezza e spontaneità. Ma il cuore del film non è tanto il triangolo che ne scaturisce quanto il viaggio interiore di Julie, che oscilla tra il desiderio di appartenenza e quello di libertà, tra l’istinto di amare e la paura di legarsi.
Una donna che cerca sé stessa e, nel farlo, finisce per perdere (e talvolta ferire) chi ama e chi la ama. Trier sceglie una struttura episodica, suddividendo il film in 12 capitoli, un prologo e un epilogo. È una scelta che richiama la letteratura e conferisce al film una dimensione di romanzo di formazione sentimentale.
Ogni capitolo si concentra su un momento, un frammento di vita che assume valore assoluto nella memoria e nell’emozione dei protagonisti. Questa struttura permette di abbracciare il disordine della vita, di mostrare come l’amore non segua un percorso lineare, ma si presenti a singhiozzo, come un lampo o un sussurro, come una scelta fatta di rimpianti e di slanci. La regia è precisa e profondamente empatica, non c’è voyeurismo, né distanza.
Trier si avvicina a Julie con un rispetto profondo per il suo caos, per i suoi dubbi e per la sua confusione. Kasper Tuxen tratteggia una fotografia naturale ma curatissima, con un uso della luce estremamente poetico: la luce blu della notte per le passeggiate e le scoperte (quando Julie incontra Eivind); Il giallo caldo nelle scene domestiche con Aksel, che racconta un amore più rassicurante, ma anche più pesante e la luce chiara e cruda del mattino che svela verità difficili da accettare. Nella scena più famosa del film Julie si sveglia una mattina e, in un atto di coraggio impulsivo, esce di casa e corre per la città fino a raggiungere Eivind.
Il mondo si ferma: la gente resta immobile, le auto si bloccano, i rumori spariscono. Solo lei si muove, guidata dall’istinto, da un desiderio di libertà pura. La fotografia è radiosa, la musica trascinante. È il sogno di un amore possibile che per un attimo diventa realtà. Ma è anche un’illusione, la vita vera riprende subito dopo. Il romanticismo di Trier non è quello delle favole, ma quello delle scelte dolorose, delle strade che si biforcano, delle vite che si incrociano e si lasciano, per sempre cambiate.