I migliori film d’amore da vedere una volta nella vita

Ecco una carrellata di film romantici che, mettendo al centro l'amore in tutte le sue forme e sfaccettature, hanno fatto la storia del cinema

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Il Disprezzo (Le Mépris), Jean-Luc Godard, 1963:

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Godard non è un regista che racconta l’amore in modo convenzionale, il suo cinema è analitico, frammentato, fatto di rotture stilistiche e riflessioni meta-cinematografiche. Questa è la sua opera più profondamente romantica e malinconica, non perché celebri l’amore, ma perché racconta la sua lenta e inesorabile dissoluzione.

Il film segue Paul Javal, uno sceneggiatore francese, e sua moglie Camille, mentre il loro matrimonio va in pezzi; una riflessione sull’amore che muore senza un evento drammatico, senza tradimenti o scontri violenti, ma attraverso incomprensioni, silenzi e parole sbagliate. Il film si apre con una delle scene più celebri di sempre: il corpo nudo di Brigitte Bardot ripreso in dettaglio, mentre Camille e Paul parlano del suo aspetto fisico.

È una scena volutamente artificiale: il nudo era stato imposto dai produttori, e Godard lo trasforma in un momento freddo e analitico, come se l’amore di Paul fosse ridotto solo a un’ossessione estetica. Godard smonta il linguaggio classico del cinema romantico regalandoci dialoghi interrotti, silenzio e distacco. I due si parlano, si provocano, si ignorano, si amano e si odiano nello stesso momento, una regia intellettuale dove la grammatica classica del montaggio è volutamente ignorata e spezzata per creare distacco tra i due protagonisti.

La musica di Georges Delerue è una delle più celebri della storia del cinema, struggente e malinconica si ripete più volte nel film, amplificando il senso di perdita. Non accompagna l’azione, ma torna ossessivamente come un ricordo. Il Disprezzo ci insegna che l’amore non muore con un colpo di scena o con un tradimento. Muore nei piccoli gesti quotidiani, nelle parole non dette, negli sguardi evitati. E quando ci si accorge che è finito, è già troppo tardi.

Sciarada (Charade), Stanley Donen, 1963:

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Elegante lungometraggio di Stanley Donan che gioca con i generi: è un thriller avvolto nella commedia romantica, un noir con il fascino delle screwball comedy, un film di spionaggio che si traveste da favola idillica. Ma se c’è una cosa che brilla più di ogni altra, è il legame emotivo che si insinua tra le trame del mistero, tra le bugie e i segreti, tra i colpi di scena e i dialoghi affilati come lame di rasoio. L’amore in Charade non è solo sentimento, è un gioco, un enigma, una danza affascinante tra attrazione e inganno.

Regina Lampert (Audrey Hepburn) è una donna in bilico tra due mondi: quello di un matrimonio infelice da cui vuole fuggire e quello di un’avventura che la catapulta in un intrigo più grande di lei. Il marito, misteriosamente assassinato, le ha lasciato una valigia piena di segreti e un gruppo di uomini spietati alle calcagna, convinti che lei sappia più di quanto dichiari. E poi c’è Peter Joshua (Cary Grant), un uomo che appare e scompare, che cambia identità più velocemente di quanto lei possa affezionarsi.

Il loro amore nasce nell’incertezza, nel dubbio costante tra fiducia e sospetto, ed è proprio questo a rendere ogni sguardo e ogni gesto carico di tensione e desiderio. Donen costruisce il loro rapporto su un tira e molla continuo: Regina è attratta da Peter, ma non sa se può contare su di lui e Peter sembra proteggere Regina, ma con l’ambiguità di chi nasconde più di un segreto. L’amore qui non è sicurezza, è un rischio irresistibile. Ogni inquadratura è studiata per esaltare la chimica tra la Hepburn e Grant, per giocare con la tensione e la seduzione, per creare un’atmosfera in cui si è sempre in bilico tra il sogno e la truffa.

Il direttore della fotografia Charles Lang utilizza ombre e contrasti per evocare il mystery classico, luci morbide per illuminare Audrey Hepburn, donandole un’aura eterea e colori sgargianti nei costumi e negli interni, per rompere l’inquietudine con il glamour e lo stile della Parigi anni ’60. Il film avrebbe potuto essere girato in bianco e nero ma Donen sceglie il colore per sottolineare la doppia anima della storia: il mistero oscuro da un lato e il fascino romantico e vivace dall’altro. Il montaggio di Jim Clark è fluido, calibra le scene d’azione in modo tale da non interrompere mai l’intimità tra i due attori principali, ma anzi, amplificarle.

I dialoghi tra i protagonisti hanno un ritmo incalzante, quasi teatrale, che rende ogni scambio verbale un duello di intelligenza e fascino. Henry Mancini, uno dei più grandi compositori di Hollywood, firma una colonna sonora ad hoc, fondamentale per costruire l’atmosfera, in cui il tema principale (Charade) è una melodia malinconica, elegante, quasi ipnotica e i motivi jazz e swing donano leggerezza al turbamento costante che attanaglia la pellicola. La differenza di età tra i due attori (Grant aveva 59 anni, Hepburn 34) poteva risultare problematica e invece diventa un punto di forza: Grant gioca sul suo fascino maturo e distaccato, mentre la Hepburn porta un’energia fresca e ingenua.

Più cresce il pericolo, più cresce l’attrazione tra Regina e Peter. È un amore che si nutre dell’incertezza, che diventa più intenso proprio perché non ha garanzie, che nasce da qualcosa di più sottile: la complicità mentale.

Ultimo tango a parigi, Bernardo Bertolucci, 1972:

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Bernardo Bertolucci costruisce un dramma erotico che spoglia l’amore di ogni maschera sociale, trasformandolo in un’agonia sensuale dove i corpi si fondono e le anime si dissolvono, dove tutto si trasforma in un istinto primordiale, in un’ossessione carnale e devastante. Un’esperienza che, se da un lato sciocca e ferisce, dall’altro ammalia e trascina, con la stessa intensità di un tango argentino: passionale, disperato, inesorabile.

In una Parigi fredda e umida, Paul (Marlon Brando), un americano di mezza età devastato dal suicidio della moglie, incontra Jeanne (Maria Schneider), una giovane donna in cerca di un appartamento. Si ritrovano per caso in un edificio in affitto e, da quell’incontro fortuito, nasce una relazione fatta di sesso brutale, libera da ogni convenzione e, apparentemente, da ogni sentimento. La regola è semplice e implacabile: nessun nome, nessuna identità, nessun passato.

I due si appartengono solo nel rifugio di quelle quattro mura, dove la carne prende il sopravvento e l’anima sembra esclusa. Eppure, quel vuoto iniziale si riempie lentamente di emozioni, paure, fragilità, e quando l’amore si affaccia, quando l’umanità reclama il suo spazio, tutto crolla. Il corpo qui diventa il solo vero linguaggio, non ci sono confessioni né promesse: ci sono atti, sudore, contatto fisico. È la carne a parlare, a reclamare attenzione, a diventare l’unico strumento per superare il dolore. Le inquadrature di Bertolucci sono ossessivamente ravvicinate, spesso claustrofobiche, come se volesse forzare lo spettatore a partecipare alla nudità emotiva dei protagonisti.

Il sesso non è mai gratuito: è lo strumento attraverso cui Paul e Jeanne si conoscono e si distruggono. Vittorio Storaro, direttore della fotografia, usa toni caldi e saturi, con dominanti di giallo, marrone e rosso, che conferiscono un senso di opprimente calore e decadenza. La luce naturale che filtra dalle finestre polverose crea un’atmosfera morbida ma inquietante, quasi onirica. La casa dove si incontrano diventa un ventre materno, un luogo protetto e isolato dalla Parigi esterna, che appare fredda e distante.

È uno spazio chiuso, intimo, che esiste fuori dal tempo. Bertolucci non interviene mai con giudizio, la macchina da presa osserva, discreta e immobile, lasciando che le scene si consumino davanti agli occhi dello spettatore. Non ci sono movimenti virtuosistici, ma inquadrature statiche e lente, che rendono il tempo denso e sospeso. Nei momenti di maggiore intensità emotiva, la camera si avvicina catturando ogni tremolio, ogni smorfia, ogni goccia di sudore, come a voler scolpire la sofferenza e la disperazione di quei corpi.

La musica di Gato Barbieri è il respiro del film. Il tema musicale principale, un tango malinconico e struggente, si ripete come un lamento, sottolineando la tragedia che si consuma lentamente, quasi fosse il canto d’addio di un amore già condannato.

La signora della porta accanto (La femme d’à côté), Francois Truffaut 1981:

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Truffaut ci descrive l’amore come condanna, che brucia senza possibilità di redenzione. In un piccolo paesino della provincia francese, Bernard (Gérard Depardieu) e Mathilde (Fanny Ardant) si incontrano di nuovo dopo anni, riscoprendo entrambi sposati e, per un brutto scherzo del destino, vicini di casa.

Un tempo erano stati amanti, ma la loro storia era finita in modo doloroso. All’inizio entrambi cercano di ignorare il passato e di comportarsi da vicini educati. Ma la passione mai sopita riaffiora con una forza inarrestabile, travolgendo ogni razionalità. L’amore tra Bernard e Mathilde è un incendio che non può essere spento. Non è un sentimento sereno, ma un’ossessione, una febbre che li consuma e li spinge verso un destino ineluttabile. Attraverso inquadrature simmetriche spesso i due amanti vengono ripresi separati da porte, finestre, specchi, regalando un’idea visiva piuttosto chiara: anche quando sono insieme, c’è sempre qualcosa che li divide.

Il villaggio tranquillo, la casa accanto, il supermercato del paese, tutto è familiare e quotidiano, ma diventa una gabbia per i protagonisti, che non possono sfuggire l’uno all’altra. I movimenti di macchina sono fluidi, Truffaut usa la cinepresa con grazia, seguendo i personaggi con discrezione, come se volesse spiare il loro amore proibito senza disturbare. La loro chimica è palpabile: ogni scena tra loro è carica di tensione, anche quando non si sfiorano, il desiderio è nell’aria.

Truffaut racconta l’attrazione fatale nel senso più puro del termine: due persone che non possono stare insieme, ma che non possono neanche vivere separate. Non c’è redenzione, non c’è compromesso, non c’è speranza. Il regista ci porta fino al limite della passione, e poi ce ne mostra il prezzo.

La storia fantastica (The Princess Bride), Rob Reiner 1987:

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Diretto da Rob Reiner, con una sceneggiatura brillante di William Goldman, il film è una delle opere più originali e amate di sempre. Il suo successo risiede nella capacità di trascendere i generi: fiaba classica, avventura, commedia e romanticismo, mantenendo sempre un perfetto equilibrio tra emozione e umorismo. Trasformando l’amore in una leggenda, diventa un racconto epico dove ogni sentimento è assoluto, dove il destino e il coraggio si intrecciano e dove ogni ostacolo può essere superato solo perché il sentimento è più forte di qualsiasi avversità.

Ma attenzione perché questo non è un amore qualunque: è l’amore romantico per eccellenza, quello che vince sulla morte, sulle prove più ardue e sulla crudeltà del mondo, vissuto con lo stupore di un bambino e la passione di un grande eroe. La fotografia richiama le illustrazioni delle fiabe medievali, con colori caldi e scenari pittoreschi, i dialoghi sono scritti in uno stile volutamente teatrale, quasi shakespeariano, per accentuare l’epicità della storia. Ogni elemento stilistico serve a farci sentire che stiamo assistendo a qualcosa di leggendario, a una storia che potrebbe essere raccontata nei secoli.

L’amore qui non è solo passione e sacrificio, ma è anche gioco, intelligenza e determinazione. È l’elemento che muove la narrazione, ma raccontato con un tono diverso dai soliti cliché, trasformandosi in avventura, divertimento e sfida attraverso prove, distanze e difficoltà e costruito sull’intelligenza e sulla perseveranza. La storia principale segue Westley (Cary Elwes) e Bottondoro (Robin Wright), due giovani innamorati separati dal destino. “Ai tuoi ordini”, ripetuta più volte da Westley a Bottondoro, è l’essenza dell’amore nel film. Ogni volta che lui la pronuncia, in realtà sta dicendo Ti amo: un modo semplice ma potentissimo di esprimere il sentimento senza essere sdolcinati.

Alla fine il protagonista parte in mare per cercare fortuna, ma viene dato per morto. Bottondoro, convinta di averlo perso, accetta di sposare il perfido Principe Humperdinck (Chris Sarandon), un sovrano crudele che la vede solo come un trofeo. Ma proprio quando tutto sembra perduto, Westley ritorna, mascherato come il misterioso Pirata Roberts, pronto a sfidare il destino pur di salvarla. Quello che segue è un’avventura incredibile, tra duelli spettacolari, inganni, giganti, magia e battaglie contro il tempo. Ma al centro di tutto c’è sempre e solo un amore che supera ogni limite e che diventa l’anima stessa del film, che usa l’ironia per svelarne le contraddizioni senza mai ridicolizzarlo.

Più che raccontarlo, ci insegna come dovremmo viverlo: con passione, con intelligenza, con coraggio e, soprattutto, con il cuore leggero. La frase conclusiva glorifica il tutto: “Dopo l’invenzione del bacio, ci sono stati solo cinque baci che sono stati votati i più appassionati, i più puri. Questo li ha lasciati tutti alle spalle.”

Gli amanti del Pont-Neuf (Les Amants du Pont- Neuf), Leos Carax 1991:

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Leos Carax ci sbatte in faccia un amore sporco, disperato, bruciante, che si consuma tra le pieghe della povertà e della follia, ma che riesce a trovare la sua bellezza proprio nella devastazione. Qui l’amore è una lotta per la sopravvivenza, è rabbia e bisogno, è due corpi che si stringono l’uno all’altro perché non hanno nient’altro a cui aggrapparsi.

È un film che vive di contrasti: la bellezza della città di Parigi e la miseria dei suoi protagonisti, la dolcezza dell’amore e la violenza della realtà. Il film è famoso per il suo uso espressionista della luce e del colore, Il Pont-Neuf diventa un’isola sospesa, una casa improvvisata dove Alex e Michèle possono esistere solo finché il mondo non li richiama alla realtà.

Il montaggio è nervoso e la musica è sempre usata per evidenziare il contrasto tra la magia dell’amore e il suo inevitabile declino. Il loro amore è tossico e autodistruttivo, dipendono l’uno dall’altra in modo disperato, fino al punto di farsi del male.