Il Gattopardo: il film leggendario che racconta la trasformazione dell’Italia.
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“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.”
Retrospettiva del capolavoro cinematografico senza tempo di Luchino Visconti "Il Gattopardo" che racconta la fine di un'epoca
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“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.”
Questa frase di Tancredi Falconeri, interpretato da un giovane Alain Delon, è tra le più celebri della letteratura italiana e riecheggia come un eco immortale attraverso le sontuose stanze di Palazzo Salina. Eppure, fuori dalle mura di quell’aristocrazia siciliana al tramonto, l’Italia si prepara a cambiare pelle. Luchino Visconti, con il suo “Il Gattopardo” (1963), non si limita a trasporre il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: lo eleva a sinfonia visiva della decadenza, restituendo la sensazione tattile della polvere, della stoffa, del sudore.
Pubblicato nel 1958, Il Gattopardo fu accolto inizialmente con scetticismo, ma il film di Visconti, vincitore della Palma d’Oro a Cannes, lo consacrò definitivamente nel pantheon della settima arte. Il motivo? Una sapiente fusione tra estetica pittorica e critica storica, che ancora oggi affascina.
Ambientato nella Sicilia del 1860, durante il tramonto del Regno Borbonico e l’avvento dell’Unità d’Italia, il Gattopardo racconta il declino dell’aristocrazia attraverso la figura del Principe di Salina, interpretato da un maestoso Burt Lancaster. L’attore americano fu scelto all’ultimo minuto, tra le proteste del regista che lo considerava inadatto per il ruolo. Ma il risultato? Un personaggio magistrale, simbolo di un’umanità trattenuta e dolente. Ogni suo gesto, ogni suo sguardo riflette la consapevolezza tragica della futilità del potere di fronte al moto della storia.
La prima inquadratura è già un manifesto artistico e politico: un lento carrello all’indietro ci introduce nella cappella di Donnafugata, dove il Principe e la sua famiglia recitano il rosario. La fotografia di Giuseppe Rotunno trasforma la scena in un dipinto caravaggesco, in cui la luce naturale disegna i contorni di un mondo che si appresta a dissolversi. Ogni inquadratura sembra ispirata ai quadri di Francesco Hayez o Jean-Auguste-Dominique Ingres, ogni movimento di macchina lento e solenne, riflette la lenta agonia di un ceto sociale.
Visconti non girava semplici film, costruiva affreschi. Non si accontenta di raccontare il Risorgimento, egli lo analizza chirurgicamente dal punto di vista della grande aristocrazia terriera siciliana, da cui lui stesso discendeva. La messa in scena iperrealistica, i costumi di Piero Tosi, le scenografie di Mario Garbuglia, ogni elemento contribuisce a quella che potremmo definire un’operazione archeologica sull’identità italiana ottocentesca.
Il suo sguardo è quello di un regista che scolpisce con la macchina da presa. Ogni inquadratura è studiata fino all’ossessione: la direzione degli attori, la ricostruzione degli ambienti, il realismo dei costumi non sono mai fine a sé stessi, ma creano una drammaturgia visiva che racconta più delle parole.
Il Gattopardo fu girato in formato Super Technirama 70, una delle più alte risoluzioni dell’epoca. Questa scelta permise di cogliere ogni minimo dettaglio, dalle perle incastonate negli abiti agli sguardi persi dei personaggi. Piani sequenza lunghi e articolati per immergere lo spettatore nella scena, un tempo narrativo dilatato, che simula la sospensione tra un mondo che muore e uno che nasce, come se Visconti avesse voluto concedere alla storia il respiro dell’eternità.
Il montaggio di Mario Serandrei opta per una narrazione non lineare, scandita da grandi blocchi temporali. Tagli invisibili e tempi morti prolungati, per generare un effetto contemplativo che richiede partecipazione attiva dello spettatore. Chi si abbandona al flusso del racconto, ne esce arricchito da un’esperienza sensoriale e intellettuale senza pari.
Il climax visivo ed emotivo de Il Gattopardo è la scena del ballo a Palermo, 45 minuti che raccontano, senza parole, la fine di un mondo e l’inizio di un altro, che celebrano l’estetica della fine, dove ogni passo è un addio a un’epoca. La coreografia è millimetrica, come il montaggio interno agli ampi movimenti di macchina: Visconti costruisce una danza di spettri, dove la fisicità dei corpi è già svanita nel ricordo.
Nino Rota alterna valzer malinconici a pause assordanti e restituisce una tecnica di sovrapposizione musicale dove la melodia si dissolve nei rumori di fondo, creando un’atmosfera onirica.
Alain Delon e Claudia Cardinale, ballando, incarnano il futuro: Tancredi è il trasformismo politico, è il manifesto opportunista di un’intera generazione pronta a sacrificare gli ideali sull’altare del compromesso; Angelica è l’arrivismo borghese irresistibile e sensuale che si insinua nei palazzi nobiliari. La loro unione non è solo sentimentale, ma soprattutto strategica: un’alleanza che sancisce il nuovo ordine sociale tra antica aristocrazia e nuova borghesia imprenditoriale, in un’Italia in mutazione.
“Il Gattopardo” ha segnato una svolta per il cinema italiano, dimostrando che era possibile conciliare autorialità e spettacolarità. Il film è stato leonardesco nella sua capacità di riunire arti e mestieri: pittura, musica, architettura e scrittura si fondono in un progetto totale.
Il Gattopardo non è solo un film, è una meditazione sul cambiamento, sull’identità italiana, sulla resistenza e la necessità di evolversi. Guardarlo oggi significa fare un viaggio dentro noi stessi. In un mondo che corre, Il Gattopardo ci chiede di rallentare, osservare, riflettere. È un invito a capire chi siamo stati, per scoprire chi potremmo essere.
E voi che ne pensate de Il Gattopardo?