“Il mio posto è qui” e 8 marzo. L’intervista a Daniela Porto
"Il mio posto è qui" torna nelle sale in occasione dell' 8 marzo, Giornata Internazionale della Donna. L'intervista esclusiva all'autrice e regista Daniela Porto che ci racconta del senso e della missione di un film sempre più apprezzato da ragazzi, scuole e istituzioni.
L’8 marzo, per chi non dimentica e resiste. L’8 marzo, per ricordare tutte quelle donne che hanno fatto la storia della nostra libertà e democrazia, ma soprattutto per condividere con quanti ancora devono assorbirne l’importanza. E allora ci sembra ancora più importante un’iniziativa come quella promossa dall’Associazione Alphio, con il patrocinio del Comune di Roma, che ci invita a riflettere sul “nostro posto” nel mondo.
Quello proposto da Daniela Porto e Cristiano Bortone con “Il mio posto è qui”, prezioso gioiello del cinema italiano, in questi giorni proiettato nelle sale istituzionali romane. Scuole e ragazzi si confrontano con la storia di Marta (Ludovica Martino) e Lorenzo (Marco Leonardi) paladini silenziosi della libertà e della giustizia. L’importanza del lavoro e della scrittura, intesi come strumento di resistenza e indipendenza, per ribellarsi a un sistema millenario che continua a negare l’identità dell’ altro diverso da noi.
E oggi, cosa rimane di quella battaglia? In una società in cui si parla drammaticamente di annullamento dell’identità femminile e di gender gap e in cui ancora permangono pericolosi retaggi culturali, quale deve essere il ruolo del cinema? Lo abbiamo chiesto all’autrice e regista del film.
Il mio posto è qui, evento con Daniela Porto
“Il mio posto è qui”, l’intervista a Daniela Porto
Il mio posto è qui racconta di Marta, una donna che lotta per la propria indipendenza in un’Italia ancora profondamente patriarcale. Oggi si parla molto di diritti delle donne e della comunità LGBTQIA+, ma ci sono ancora resistenze. Quanto è importante ricordare ai ragazzi da dove veniamo, per capire dove vogliamo arrivare?
D.P. «Io penso che nessuno di noi nasca all’improvviso, ma che siamo frutto di quello che c’è stato prima di noi. È importante conoscere cosa c’è stato prima di noi, per poi potersi comportare in maniera adeguata e conseguente anche rispetto alle conquiste che si sono avute nel corso degli anni e per capire anche cosa, rispetto a quello che si è fatto prima, si può ancora migliorare oggi. Purtroppo, in modalità differenti, e anche con finalità differenti, molti problemi persistono».
Cioè?
D.P. «Ad esempio il tema della divisione tra lavoro fuori casa, la carriera, e la famiglia. Questo è purtroppo ancora molto spesso sulle spalle delle donne. Sta cambiando, vedo tanti modelli di coppia intorno a me in cui marito e moglie si dividono e decidono in modo molto aperto e paritario chi si deve occupare di cosa, chi magari deve anche sacrificare una carriera per poter aiutare l’altra persona. Molto spesso, però, soprattutto in alcuni ambiti sociali, è sicuramente ancora molto più a ricasco delle donne.
Ieri ho letto un articolo sul giornale che mi ha fatto molta tristezza. In una scuola hanno fatto delle scale arcobaleno, e un bambino di 13 anni, per non camminare su quelle scale arcobaleno, si è lasciato scivolare sul corrimano. Ovviamente questo ha creato dei problemi con la scuola, che ha dovuto prendere dei provvedimenti. Ma il padre? Ha risposto “Ha fatto bene, sicuramente molti altri vorrebbero fare come lui, ma non hanno il coraggio di dirlo”.
E lì rimani a bocca aperta, rimani senza armi, perché sai che se non hai qualcuno dietro di te che ti spiega delle cose, che te le fa notare, che ti scuote, allora è importante che la società intorno a te in qualche modo ti ammonisca. Io mi auguro che film come il nostro, e ce ne sono tanti altri per fortuna che trattano questi argomenti, possano avere un ruolo nella formazione della cultura di un paese. Questo un po’ è anche il nostro compito: non solo fare arte in assoluto, ma anche portare l’attenzione ad alcuni temi così importanti».
Il film verrà discusso con rappresentanti istituzionali e politici. Quanto è cruciale che storie come questa vengano portate nelle sedi istituzionali? Cosa si aspetta concretamente da chi oggi ha il potere di cambiare le cose?
D.P. «Per fortuna questo film, quando viene visto, viene accolto molto positivamente, perché riscontra l’interesse di diversi ambiti politici. Questo mi sembra fondamentale, cioè che sia un film in grado di unire e non dividere. Perché se c’è unione di intenti in questo ambito, significa che si può lavorare insieme.
Il 5 marzo ad esempio siamo stati a Tor Bella Monaca, Municipio VI, dove siamo stati accolti da entrambe le fazioni politiche: lì la maggioranza è di centrodestra, la minoranza di centrosinistra, ma lavorano molto bene insieme, e tutte le parti sono state concordi nel dire che un film come questo deve essere promosso e visto nelle scuole.
Ciò che mi auguro è che, in questo caso, temi così importanti possano far superare quelle che molto spesso sono delle mere divisioni ideologiche, perché poi invece la vita reale delle persone è concentrata su altre problematiche. E mi auguro che questo possa diventare uno strumento nelle mani anche delle istituzioni politiche, da portare nelle scuole o in altri ambiti altrettanto utili per aprire un dibattito. Tra l’altro, negli ultimi mesi abbiamo realizzato diverse proiezioni con delle scolaresche in tutta Italia.
I ragazzi hanno l’esigenza di parlare di queste cose. Intanto è interessante che si dia anche un conteso storico e che si affrontino alcuni argomenti, come il voto alle donne. Il fatto che prima le donne non potessero votare, dà importanza anche al voto oggi (purtroppo tra i giovani c’è un grado di astensionismo altissimo). Quindi, anche in questo caso, ricordare loro che non è sempre stato così, che è stato un diritto conquistato con grande fatica, è importante per dare valore oggi a questo diritto. Credo sia fondamentale».
Il mio posto è qui – Daniela Porto e Marco Leonardi
Marta e Lorenzo, i protagonisti del film, rappresentano due categorie sociali discriminate nell’Italia del dopoguerra: una donna costretta a un matrimonio forzato e un uomo non libero di amare. Il loro legame diventa uno strumento di resistenza. Secondo lei, oggi come possiamo tradurre questa idea di solidarietà in azioni concrete?
D.P. «Grazie a questo film sto conoscendo un po’ in tutta Italia un grandissimo movimento di associazionismo, che è trasversale: può essere un associazionismo di quartiere, un associazionismo dedicato agli omosessuali, alla memoria della resistenza partigiana, alle donne… di vario tipo. Queste realtà secondo me lavorano benissimo, ma hanno bisogno di più attenzione e di più credito da parte delle istituzioni politiche.
Però è molto bello scoprire e rivedere come ci sia interesse per un’azione concreta, attiva e non più passiva, sulle realtà locali. E queste realtà locali molto spesso fanno alleanza tra di loro. Ecco, questo è quello che per me è importante: l’alleanza, l’amicizia. Marta e Lorenzo riescono a fare qualcosa insieme perché si alleano, perché riescono a conoscersi l’uno con l’altra.
Marta, quando incontra Lorenzo, lei stessa all’inizio lo respinge perché omosessuale, quindi anche lei replica su di lui lo stesso tipo di pregiudizio che lei stessa subisce.
Ma nel momento in cui conosce l’altra realtà, i due si alleano e percorrono insieme un cammino che li porta verso una risoluzione dei problemi, o perlomeno a una reazione attiva nei confronti della vita di Marta. Ritengo che questi tipi di alleanze, sia nella vita pubblica che privata, siano fondamentali; può essere un’alleanza con un padre, con una professoressa, con uno zio, qualsiasi cosa».
In una società sempre più egoista e individualista, riuscire a non sentirsi soli…
D.P. « Sì. È importante che ognuno di noi riesca a trovare qualcuno che lo aiuti in situazioni di difficoltà e che possa poi agire concretamente, anche a livello più grande, di società, per ri-dedicarsi ad alcuni aspetti della vita pubblica e partecipare attivamente ad eventi e associazioni più piccole, ma che concretamente aiutano qualcuno che è in difficoltà. Può essere un’associazione di anziani soli, oppure di immigrati, in cui magari si possono organizzare dei corsi di italiano.
Faccio solo degli esempi, che in realtà costituiscono degli aiuti concreti da offrire alle persone e alla nostra società. E la politica, a mio parere, dovrebbe sostenere maggiormente queste associazioni locali, perché sono più capillari e in grado di entrare in modo più efficace nel tessuto sociale».
Nella nostra recensione del film, “Il mio posto è qui” viene visto come una lenta e progressiva lotta verso l’emancipazione (femminile e non) , riscontrabile nelle piccole cose. Se potesse lasciare un messaggio a una ragazza che oggi si trova nella stessa situazione di Marta, magari non più negli anni ’40, ma in un contesto ancora oppressivo o discriminatorio, cosa le direbbe? Quali strumenti o misure le consiglierebbe di adottare?
D.P. «Intanto ripeto la parola alleanza, cioè l’importanza di creare una rete di persone, di altre donne o di quello che sia, per poter condividere un momento di difficoltà. Le direi anche di non farsi in qualche modo fermare da pregiudizi o problematiche esterne. È vero, molto spesso i problemi sembrano molto grandi, alcune volte sono oggettivamente insormontabili, però secondo me nessuna situazione è completamente disperata.
Certo, se penso ad esempio a casi di violenza domestica, il percorso è molto doloroso e lungo; però, per fortuna, sono stati attivati anche tanti tipi di reti per poter aiutare le donne che subiscono violenza. Durante il tour di promozione del film mi è capitato di parlare con avvocate che in modo assolutamente gratuito assistono queste donne, e molto spesso mi dicono che sono loro le prime che dopo una prima denuncia hanno paura, perché forse non si fidano delle istituzioni o hanno paura che tutto si riveli inutile.
Lo capisco, è una situazione molto complicata, però credo sia necessario avere fiducia in persone che si dedicano a questo e che hanno eventualmente i mezzi per muoversi. Purtroppo sono tutti percorsi molto complicati e molto dolorosi, ma il messaggio che vorrei dare è: non perdere la speranza».
Il mio posto è qui – Ludovica Martino
Scrittura e dattilografia come strumenti essenziali di libertà, realizzazione e futuro. Qualche parola su questo concetto e sul modo in cui avete deciso di rappresentarlo sulla scena?
D.P. «Innanzitutto sì, la scrittura come libertà anche se in questo caso è più il lavoro come libertà. E la dattilografia nel nostro caso è anche istruzione. In qualche modo, nella nostra storia di Marta e Lorenzo si sono ripercorsi alcuni punti di quello che poi è successo nella storia, ma trent’anni dopo.
Intanto, è grazie all’istruzione che la donna ha potuto emanciparsi, e poi, guarda caso, la cultura patriarcale si è scardinata nel momento in cui sono nati il movimento omosessuale e i movimenti delle donne, che con spinte diverse e con finalità diverse hanno comunque dato un bello scossone alla cultura patriarcale.
Quindi, in qualche modo, questi tre elementi, la dattilografia e i personaggi di Lorenzo e Marta, sono un po’ un simbolo di quello che è successo veramente nella Storia con la S maiuscola. Mi sembrava bello dare quasi una rappresentazione magica della macchina da scrivere.
Marta, una delle primissime volte in cui si ritrova davanti alla macchina da scrivere che le procura Lorenzo, ne rimane un po’ affascinata ma anche un po’ impaurita, quasi come se fosse uno strumento non dico diabolico ma magico. È magico perché è qualcosa che le promette un futuro, e volevamo rappresentarlo così».
A questo film dunque, che sa così meravigliosamente di futuro.
“Il mio posto è qui”, dove trovare ulteriori info?
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