Stephen King è indubbiamente uno dei più conosciuti e amati scrittori moderni. Un successo planetario bacia ogni sua opera, e non si contano gli adattamenti sui suoi romanzi: è da almeno due decenni che non esce un suo libro senza che (ancora prima della pubblicazione!) i diritti siano opzionati per un film o una serie tv.
ll 20 marzo esce The Monkey, film di Oz Perkins (regista del pluricelebrato Longlegs con Nicolas Cage) prodotto da James Wan (autore del capolavoro Malignant nonchè ideatore di uno dei franchise horror più forti degli ultimi anni, Saw), tratto da un racconto edito nella raccolta Scheletri del 1989.
Spesso ci si è interrogati in passato sul reale valore letterario del suo corpus: oggi è incontrovertibile la sua grandezza, così come è enorme la sua influenza sulla cultura di massa e sul cinema. Ripercorriamo allora la sua carriera, dall’inizio ad oggi, per vedere come è cambiato e perché da più parti viene definito come il Dickens moderno.
Ai miei Fedeli lettori
Stephen King. Lo sanno anche i termosifoni chi è: probabilmente, uno dei pochissimi (il solo?) scrittori contemporanei che ha saputo trascendere il medium diventando personaggio, idolo della folla, icona protagonista di spot televisivi, cammei cinematografici, quasi proverbiale.
Quintali e quintali di materiale scritto su di lui (lasciamo per un momento perdere i quintali di pagine scritti da lui…), che portano ad una definizione intemerata: un Dickens per il nuovo millennio, pronta a sacrificarsi sull’altare dell’amore per uno scrittore che allieta le notti, gli incubi e i sogni di milioni di persone da trent’anni e più, pronta a sviscerare (senza assolutamente pretese di esaustività o completezza filologica) gli aspetti meno nascosti al pubblico (non certo ai suoi fedeli lettori) che fanno di lui soprattutto un Narratore, ancora prima che un ottimo scrittore horror.
Partendo a razzo, sgombriamo subito il campo da un equivoco grande e pesante come il pocket di IT (1300 pagine): King non è uno scrittore horror. È semmai anche uno scrittore horror, forse uno di quei geniacci talentuosi che riesce a sguazzare nel genere letterario giusto per mascherare il suo discorso, per rendere più appetibile il suo cote esistenzialista e palesare intanto l’insostenibile leggerezza di alcuni argomenti.
Oltretutto, l’intoppo di cui sopra nasce forse da un nodo ben preciso: nel mare magnum che lo riguarda, su King è stato scritto di tutto e di più, ma tralasciando la sua produzione più recente.
Relativamente più recente, perché parliamo più o meno da Insomnia (id., 1994)in poi: tutti i libri editi prima sono stati sì oggetto di studio e discussione, ma fanno anche parte di un primo periodo, quello segnato più marcatamente dall’orrore e dalla paura che hanno contribuito a fare conoscere il Re come Re del brivido, facilitando la sua veicolazione fra il pubblico appunto per il loro approccio fantastico.
È quindi un dato di fatto che partendo da I Vendicatori (The Regulators, 1996) e Desperation (id., 1996), la produzione kinghiana sia stata un po’ presa sottogamba, e non studiata e metabolizzata per quello che invece era diventata.
Proprio da quei due romanzi, tanti fan distratti hanno preso a sentenziare circa un presunto inaridimento della vena del buon Stephen; senza rendersi conto (o non potendo farlo, aspettando soltanto l’ennesimo, angosciante incubo letterario) che invece King stava mutando pelle, abbandonando le ormai scomode scarpe finora usate per indossare qualcosa che lo facesse più comodamente camminare nel nuovo sentiero che aveva intrapreso.
Carrie
Nel 1974 fu editato Carrie (id.), opera di un nuovo scrittore che faceva fatica a sbarcare il lunario e si arrangiava con mille mestieri assieme alla moglie (allora come ora) Tabitha. Già in questo primo romanzo, così snello veloce -appena un centinaio di pagine- si intravede tutto il mondo kinghiano (una precisazione: in questi excursus cercheremo meno possibile di rovinare la sorpresa a chi volesse intraprendere la lettura dei libri, tentando di esporne la sinossi senza rivelare alcunché circa i finali e i colpi di scena): Carrie è una ragazzotta grassa e brufolosa, sbertucciata dalle compagne di scuola e angariata da una madre imponente e malvagiamente ottusa.
Questo almeno fin quando non scopre, con la pubertà, di avere dei poteri telecinetici, e di poter quindi prendersi una rivincita su chi la ha sempre bistrattata. Inutile dire che finirà in un lago (letterale) di sangue. In Carrie abbiamo belli e pronti alcuni topos di Stephen King, che sono la vita di provincia, il Male nascosto sotto varie facciate, l’orrore pronto a balzare fuori dalle pieghe della quotidianità.
E poi, un primo sintomo rivelatore: la metafora.
Carrie scopre di essere telecineta contemporaneamente all’arrivo della prima mestruazione. E non è un caso. L’orrore, il dolore, tutto quello che le accadrà dopo sembra causato dai poteri esp: ma è solo un modo affascinante e letterariamente più complesso per dire una cosa: crescere è doloroso. Per dire: attenzione, crescendo scopriremo tutti di avere lati nascosti che potrebbero non piacerci, che potrebbero rivelarci parti di noi che non conoscevamo. E tutto questo, quanto è inevitabile, tanto fa male. Nel romanzo, tutto è narrato da diversi punti di vista che si alternano: monografie scientifiche, testimonianze oculari, servizi tv.
Come a dire: vedete? I giovani sono sotto gli occhi di tutti. Studiateli, ma non li capirete mai. Senza contare poi l’illuminante, puntuale descrizione di un’umanità varia non ancora articolata fino allo spasimo, ma già piena di nervature sottocutanee, piccole discrasie che portano alla luce ipocrisie e nevrosi tutte moderne.
Appena due anni dopo, il deflagrante successo del romanzo spinse un regista a girarne una versione per il Grande Schermo: Brian De Palma girò l’omonimoCarrie (id.). Che, pur seguendo quasi pedissequamente il prototipo stampato, riesce ad essere capolavoro autonomo rileggendo le pagine kinghiane attorcigliandosi attorno ad un filo conduttore: il sangue. Componendo il film in maniera quasi circolare, De Palma compie un’operazione sul testo innervandolo (attraverso split screen, ralenti, accelerazione) con le sue ossessioni e con uno stile visivamente iperbolico e teoreticamente meta-cinematografico, che diventerà un suo marchio di fabbrica.
Shining
Nel 1977, dopo il successo di Carrie bissato nel 1975 da Le notti di Salem (Salem’s Lot), King usciva in libreria con Shining (id.). Strana sorte, quella di questo libro: in Italia, fu pubblicato originariamente con il titolo Una splendida festa di morte: non ebbe un successo immediato, ed è uno dei romanzi della prima fase kinghiana più compatti, più sottilmente inquietanti. Se con Carrie King aveva girato attorno al mogul della gioventù, con Le Notti di Salem ma ancora di più con Shining riflette e distrugge l’istituzione della famiglia.
Ovvero: la famiglia, come concentrazione di ipocrisie, falsi sentimenti, covo di dolori e coercizione.
Nel romanzo, Jack Torrance, padre di famiglia da troppo tempo senza lavoro e scrittore senza successo e in crisi, accetta l’incarico di nuovo custode invernale dell’Hoverlook Hotel, andando a vivere lì, isolato per i mesi freddi, con la famiglia: esploderà la follia.
Una follia serpeggiante, che trova il pretesto nella possessione fantasmatica, ma ha radici ben più profonde: la dissoluzione dei valori, l’inaridimento di un vero senso di famiglia intesa nel senso classico che porta a frustrazioni più grandi di chi deve controllarle.
Non ci sono in Shining (libro) i sovraffollamenti di personaggi tipici dello scrittore del Maine, ma uno studio approfondito e agghiacciante della mente di un uomo alle prese non tanto con le presenze ectoplasmatiche dell’Hotel dove è prigioniero, quanto alle prese con i suoi fantasmi, intrappolato nel labirinto della sua stessa mente.
Comincia forse qui la straordinaria galleria di ritratti personale di cui è stracolma la bibliografia kinghiana: se la giovane Carrie era stretta fra la caratterizzazione adolescenziale e il racconto orrorifico, Jack Torrance è il primo, grande personaggio kinghiano prigioniero dei suoi demoni, primo, monumentale studio sulla psicopatologia degno di Freud.
E proprio con Shining che allora iniziamo a vedere in King una voglia di andare al di là del raccontino morale: c’è uno sforzo verso l’approfondimento, una tensione alla descrizione che si fa cronaca, che muta in studio sociale.
Strana sorte, dicevamo, toccò a questo libro, però: sembrò sparire se confrontato alle dimensioni mediatiche del capolavoro che ne fece Kubrick al cinema. C’è da dire che il regista manipolò ampiamente -per non dire stravolse- il libro di King: piegato alla sua visione (lo stesso King fu irritato non poco dalla cosa, tanto da rinnegare il film kubrikiano e girare una sua versione personale per la tv), Shining, -anche lui oltrepassando i confini dell’horror- divenne un film spettacolare e di genere “che è anche virtualmente illeggibile tanto compatto e inesauribile è il suo spessore psicologico” (Ghezzi).
E allora, il valore del libro si può e si deve notare anche nelle potenzialità non espresse e portate alla luce da Kubrick, che fece di Shining il riflesso della labilità, fallibilità e alla fine inutilità dei sistemi di comunicazione codificati dall’uomo in quanto animale sociale.
L’ombra Dello Scorpione
Preparatosi il terreno per il successo in libreria, nel 1978 King prese definitivamente il volo, dando alle stampe il suo romanzo più complesso, quello più articolato (assieme forse ad It) e insieme più stratificato della sua carriera: L’Ombra dello scorpione (The Stand).
Solo un anno prima, si era preso il lusso di pubblicare oltre a Shining anche il suo primo libro firmato con lo pseudonimo di Richard Bachman (una sorta di alter ego: si narra lo fece per oltrepassare una legge americana che vietava allo stesso scrittore di pubblicare più opere nello stesso anno); ma con The Stand arrivò alla piena consapevolezza artistica, ad una maturità che lo accompagnerà fino ai giorni nostri, mutando(si) ma rimanendo fedele ai canoni stabiliti proprio con questo libro.
The Stand parte da una premessa semplice: un virus (il “Captain Trip”) uccide qualcosa come quattro quinti della popolazione mondiale, e i sopravvissuti si riuniscono in due diverse fazioni per combattere tra di loro. Libro apocalittico, funereo, magari ambizioso ma contemporaneamente fresco e imponente nella scrittura e nella struttura (si divide in tre parti che specularmente si rincorrono: Distruzione, Rinascita e Distruzione); definitivo negli assunti e in una visione del mondo che non lascia scampo, presenta l’umanità per quello che è, cioè un coacervo di personalità e disfunzionalità, perso negli infiniti meandri della interscambiabilità del Bene e del Male.
Una commedia umana, appunto, che mostra le diversità nei suoi anfratti più nascosti e ne indaga similitudini e interazioni: mentre il Bene e il Male vengono osservati come due principi assoluti (ma più in senso junghiano che cristiano), la brillocca umanità che popola come formiche la Madre Terra si affastella rimbalzando da una barricata da un’altra.
Qui c’è tutto King, il più sublime e quello più amato, quello che oggi sfrondato dalle geografie orrorifiche si lascia andare all’investigazione sull’essere umano, prolisso (la prima stesura contava duemilacinquecento pagine, poi drasticamente sfrondate dall’editore per la pubblicazione del 1978, reintegrate successivamente solo nel 1991) ma affascinante, impervio ma necessario e prezioso nelle descrizioni, nelle supreme discese che compie ai confini della luce, negli scandagli che affonda nel buio delle perversioni e delle depravazioni di un mondo che si ritrova allo sbando.
Perché l’uomo non sa imparare dai propri errori e nonostante il succedersi delle generazioni i figli non sanno imparare dai padri, e dalle ceneri dell’Apocalisse difficilmente potrà nascere una umanità realmente nuova. The Stand è stato trasposto sul piccolo schermo dal mestierante Mick Garris: chiamato dallo stesso King perché fondamentalmente privo di una vera personalità autorale, Garris gira una miniserie in sei parti e ne spreca totalmente i potenziali.
L’ombra dello Scorpione in tv diventa quindi una noiosa operetta salvata qua e làda un cast efficace: ma chissà cosa ne sarebbe stato in mano ad uno come Eli Roth?
Pet Semetery
Dopo The Stand, da King arriveranno cose belle e notevoli come La Zona Morta (The Dead Zone, 1979- che darà origine al capolavoro omonimo di David Cronemberg), Danse Macabre (id., 1981), Cujo (id., 1981), Stagioni Diverse (Different Seasons, 1982), Christine (id., 1983), L’Ultimo Cavaliere (Gunslinger, 1982, uno di sette tomi dedicati alla saga La Torre Nera-The Dark Tower, ma ne parliamo dopo).
Nel 1983 arriva invece Pet Semetery(id.), dove ci piace vedere la nascita di un nuovo umanesimo kinghiano. Nelle opere precedenti, abbiamo visto come la storia nelle sue varie declinazioni (thriller, horror, splatter) fosse sempre accompagnata da un approfondito studio sulla natura umana; ma è con Pet Semetery, penso, che la strada di Stephen King nella narrativa contemporanea arriva ad una svolta.
La scoperta di una sorta di pietas, un sentimento di com-passione e com-partecipazione, quasi un’aderenza umana ai suoi personaggi, che letteralmente balzano fuori dalla pagina, diventando non solo accademiche riflessioni su devianze, patologie, disfunzionalità tipicamente umane, ma anche e soprattutto ritratti di persone (e non personaggi), veri, dolorosi. E il racconto è la storia di Louis, un medico che con la moglie Rachel e i figlioletti si trasferisce in una nuova casa nel Maine. La proprietà confina con un cimitero indiano dei Micmac, il cui terreno nasconde un terribile segreto: consente, a chi vi è sepolto, il ritorno dall’Aldilà.
Ovviamente King si spinge ben aldilà di una semplice e prevedibile storia di zombie: Pet Semetery è un’agghiacciante, claustrofobica riflessione sull’amoralità della morte, sull’inaccettabilità delle leggi terrene di fronte al valore vero, supremo dell’Amore; e da qui, la sfida prometeica alle leggi di natura destinata al fallimento, ma ugualmente irrinunciabile. Libro tra i migliori, che ha goduto di una buona trasposizione filmica a cura della regista Mary Lambert, che ha necessariamente sfrondato ma che ha saputo ricreare un abile sentimento di angosciante ineluttabilità.
Diciamolo subito:It (id., 1986) è I promessi sposi di Stephen King. E’ il romanzo che sa racchiudere una generazione intera, la mammuth opera che ognuno ha avuto sul comodino della camera da letto: nonostante le quasi duemila pagine, letta, riletta, leggiucchiata, smessa prima della fine, iniziata dalla seconda parte, ripresa.
Comunque, un’opera che fa dittico con The Stand, per complessità e capacità di raccogliere al suo interno un catalogo sterminato di tipi, nonché i sentimenti e il senso di un’intera epoca. It è strutturato in due parti: la giovinezza e l’età adulta di sei persone che allora come oggi devono fronteggiare un mostro che vive nelle fogne. Mostro che appare come clown, o come gigantesca creatura aracnide, in ogni modo innominabile e indescrivibile (da qui it, in inglese aggettivo neutro usato per le cose inanimate).
Ovvio che sotto c’è dell’altro, e molto altro: It è in ogni caso un tomo educational che ha segnato non poco con i suoi dolori della crescita. Soprattutto per l’esplicitazione massima di una retorica di formazione che non può mancare in un percorso adolescenziale, quando si entra a contatto con la paura, con il proprio Io e con il pericolo della perdita dell’identità.
Ed è proprio qui che si aprono i primi veri scorci dickensiani: la narrativa di Stephen King, pure dissolta molto spesso nel sentimentalismo e nell’effettaccio e nell’enfasi per andare incontro ai gusti di una massa più ampia possibile di lettori, contiene un respiro e una vastità di temi, una dimensione così articolata e ricca, da riuscire unica nel suo genere anche per la varietà dello stile e per la singolare forza dinamica, così come la cosiddetta “commedia dickensiana”; e contemporaneamente una sottile, puntuale e graffiante satira verso le istituzioni colpevoli di soffocamento, verso una società che cavalca verso l’alienazione.
Una modernità debitrice dell’uso sagace del grottesco, del simbolico che però trascende il dato realistico, per non dire nell’assurdo e nel fantasy. It ne è la rappresentazione massima, almeno in quella che si può definire come al prima fase dell’epica Kinghiana, nella quale It occupa il nadir.
Peccato che per quanto riguarda il corrispondente sullo schermo non ci sia tanta ricchezza: con la regia di Tommy Lee Wallace (autore peraltro di un -inspiegabilmente- buono Halloween III), il romanzo per eccellenza assume le forme di un filmaccio opaco e insignificante, servito pessimamente da attori sotto il livello di guardia, che emerge quando si sente forte l’afflato di King (la vita di provincia, l’intreccio fra passato e presente, i dolori della crescita, gli strazi), ma annaspa quando si tratta di approfondire le psicologie.
E questo fa venire un dubbio: che la cattiva riuscita delle trasposizioni kinghiane dipenda dall’ingerenza dello stesso autore? È un dato di fatto che tutte le volte che King ha preso le distanze dai registi (è successo con Cronenberg, con De Palma, con Kubrick) siano venuti fuori dei capolavori.
Misery e le meta-storie
C’è un sottofilone importante, in tutta la produzione letteraria dello zio King: quello che sviscera tutte le ossessioni, le follie, le paure, le patologie insite nell’atto meraviglioso e terribile della creazione (letteraria, ma non solo).
È un contenitore che offre un autore già affascinato dalle geografie del romanzo popolare (senza le contaminazioni del genere), e che soprattutto dà contributi importanti sul suo spessore da scrittore tout court, con riflessioni mai banali sulla letteratura e su come è irradiata dalla pop-art in senso lato (leggere per credere il cristallino Danse Macabre, id., 1981).
È stato iniziato con Shining (id., 1977), è proseguito con Misery (id., 1987), poi con La Metà Oscura (The Dark Half, 1989), Mucchio d’ossa (Bag of bones, 1998), On Writing (id, 2000), La Storia di Lisey (Lisey’s Story, 2007) -mmm… sarà un caso che sono tutti presenti nel nostro viaggio lungo le strade del Re? Iniziamo con Misery. Che è paradigmatico, capostipite di tutta la “serie” -forse anche più di quello che è cronologicamente il primo-, racchiudendo tutti i germogli che fioriranno in seguito, e descrivendo con arguzia, sottile arte dell’ironia, e con estrema e impietosa autocritica le ansie insite in chi fa quel mestiere.
Ogni scrittore, si sa, ha i suoi rituali: Hemigway scriveva in piedi e a matita, Balzac davanti ad un vassoio di frutta secca; molti si mettono a lavoro solo a notte fonda, altri cominciano all’alba e finiscono a mezzanotte. E se lo Shining di Kubrick girava splendidamente attorno al terrore della pagina vuota e al blocco dello scrittore, alla difficoltà della comunicazione (e quindi della creazione, esternazione di emozioni e mondi interiori),
Misery parte invece da un problema che affligge non solo King, ma probabilmente tutti gli scrittori (e musicisti, e registi, e artisti in generale) del mondo: fino a che punto, e quanto, le pressioni del tuo pubblico possono influire sul tuo lavoro. Ma è soprattutto uno splendido lavoro di autoanalisi che fa King, mettendo nero su bianco, con una sincerità brutale e desueta, tutti i fantasmi che nascono prima, durante, e dopo gli esorcizzanti processi creativi.
Senza contare che lentamente Misery diventa prima anche uno splendido ritratto di donna, poi l’ennesimo, accurato e inquietantemente puntuale studio sulle patologie della quotidianità, nonché sulla banalità del Male, pronto a balzare fuori dalle pieghe di presunte normalità. Rob Reiner ha adattato il romanzo per il cinema, girando Misery non deve morire (Misery, 1990) e girando attorno soprattutto alla figura femminile, interpretata con magistrale immedesimazione da un’allora emergente Kathy Bates (mentre lo scrittore protagonista, Paul Sheldon, aveva le fattezze di James Caan.
Da Il Gioco Di Gerald a Dolores Claiborne
Si arriva così alla fine al passaggio delle consegne: quello che lo Stephen King horror (anche se era solo un travestimento, abbiamo visto) fa nelle mani di uno Stephen King psicosociale, che mette a frutto quei bagliori dickensiani intravisti con It (id, 1986), e che diventa il romanziere moderno che più di ogni altro sa dare nuova ritmica al racconto, e sa racchiudere nelle sue pagine il senso di un’epoca.
Il libro di transizione è Il gioco di Gerald (Gerald’s Game, 1992): non proprio il suo migliore, e neanche propriamente bello. Ma capostipite, inizatore: di quella trasformazione dialettica che avverrà con il successivo, splendido Dolores Claiborne (id., 1993), e che subirà un piccolo stop nel periodo successivo, sinceramente nero per quanto riguarda la produzione (Rose Madder, I Vendicatori, Desperation non sono davvero memorabili), segnato però dal gravissimo incidente che ha visto protagonista King il 19 giugno 1999 (un camion lo sfracellò mentre stava facendo footing, e fu solo per miracolo che ne uscì solo con braccia e gambe rotte).
Ebbene, la rivoluzione vera e propria iniziò subito dopo: gioielli come Mucchio d’Ossa (Bag of Bones, 1998), Il Miglio Verde (Green Mile,1996), Cuori in Atlantide (Hearts in Atlantis, 1999), La tempesta del secolo (Storm of the Century, 1999)… e si potrebbe continuare praticamente fino ad oggi, alla faccia dei fan talebani e miopi alla ricerca delle paure dell’adolescenza, che non vedono un immaginario strepitoso e ricolmo di emozioni e svolte psicologiche.
King ha operato una rivoluzione nella sua linguistica, rivoluzione che i detrattori passano astutamente sotto silenzio, accenni di un cambio di pelle che diventano lentamente dichiarazione d’intenti, statuto d’esistenza. L’anarchia della prosa kinghiana si adombra forse un po’ negli elementi della trama raccontata, che però diventa puro pretesto (come prima lo erano vampiri, mostri e licantropi): ma capolavori come Cuori in Atlantide vivono e vivranno in eterno più per le cose che dicono, e per come le dicono, con un raccontare che come un blob si allarga a macchia d’olio fra passato e presente senza soluzione di continuità che non sia a volte il carattere tipografico.
In opere come Il gioco di Gerald, L’acchiapasogni, La casa nera, si colgie appieno il tentativo riuscito sempre più di minare alla base le regole della propria narrazione, facendola esplodere in un miasma di pensieri e parole che lasciano di stucco.
La storia, di per sè, può apparire convenzionale, ma la grandezza di questo grande Narratore contemporaneo sta non nella caratterizzazione (peraltro egregia), quanto nella prosa. Una prosa sconvolgente, un crescendo vorticoso e senza sosta di libertà linguistica che tocca punte di stream of consciousness sperimentali, ardite, avanguardistiche
Mucchio D’ossa
Nel 1998 esce Muccio d’Ossa (Bag of Bones), e per un attimo i fan prendono respiro. Eravamo arrivati al Gioco di Gerald (Gerald’s Game, 1992), dove la prosa kinghiana prendeva il volo verso nuovi lidi, abbandonando i lidi dell’horror, continuando a lambirli semplicemente ma tenendo la rotta ferma verso tematiche dichiaratamente formative, mature, sofisticate.
E si diceva di come molti fan duri e puri male avessero visto questa virata, richiedendo a gran voce il King orrorifico e vedendo nella sua mutazione i semi di una perdita d’inventiva.
Proprio Mucchio d’ossa però smentisce ogni illazione e fuga ogni dubbio: il racconto è infatti un’agghiacciante storia di fantasmi, classica nel suo procedere e nel suo svelarsi, con gli spaventi piazzati a piè sospinto, con quelle atmosfere lugubri e goticamente oscure che solo il buon vecchio zio Stephen sapeva creare.
Ma non è solo questo, perché Bag of bones contiene in sé tutti i topos kinghiani (le sue geografie dell’anima, i suoi rapporti di famiglia forgiati nel sangue, nel rancore e nell’amore assoluto), recupera alcune suggestioni del seminale La metà oscura (The Dark Half, 1989) e organizza gli elementi con una certezza d’assunto esplicita ma anche vivissima, linfatica, sanguigna, dimostrando come in tutto questo -roba insomma da gran vecchio Stephen King dell’orrore– può, anzi deve oramai esserci di più.
E quel di più è quello che abbiamo visto prima, una metamorfosi verso una prosa più sciolta e a tratti folle, innovativa nel suo riadattare l’ostico stream of cosciousness, il tutto sposato a temi molto più maturi. Bag of bones è la storia di come il passato ci condiziona, ma anche una straordinaria ricognizione all’interno del mondo di uno (ennesimo) scrittore in crisi, un ritratto spietato delle luci e delle ombre della nostra vita.
Va detto anche che King aveva dato alle stampe nello stesso anno Il miglio verde (The green mile), Desperation (id.), I vendicatori (The regulators). Gli ultimi due sono due racconti speculari e in un certo senso paralleli (i protagonisti si specchiano gli uni negli altri nei due libri, pur vivendo in due realtà e due trame separate), il primo è un piccolo capolavoro melò carcerario, perfetto nel dosaggio di commozione e suspanse e che sfido a leggere restando a palpebra asciutta fino all’ultima pagina: e sono opere che si assediano in un quadro fortissimo di genere (il pulp-western e il dramma carcerario appunto), spavaldo e aggressivo, tirando però le fila dei luoghi comuni canonici dlla quotidianità con splendido piglio-
Questo rende le pagine kinghiane arnesi definitivi e indispensabili all’immaginario culturale, non tanto per le invenzioni folgoranti che di libro in libro continuano a stupire per la loro semplicità, quanto per la costruzione di un universo -l’universo kinghiano- che per più di tre decadi ci ha aiutato alla comprensione delle cose (inclusi noi stessi) per mezzo dell’orrore e della paura, in un micro/macrocosmo umanistico che ci coinvolge in prima persona
Da La Bambina che Amava Tom Gordon a Cuori In Atlantide
Lo sapete qual è uno dei libri più sottovalutati e ingiustamente dimenticati del corpus kinhghiano? Cuori in Atlantide (Hearts in Atlantis, 1999). E sapete di chi è buona parte della colpa? Di Stephen King e di Scott Hicks.
Ma andiamo con ordine. Dopo l’abbuffata del 1996 -tre libri alle stampe- nel 1999 esce un altro trittico di libri (ormai il buon vecchio zio Stephen ci ha abituato ad una quantità pantagruelica di pagine stampate all’anno, come faccia è un mistero), tre libri dalle sorti più che differenti l’uno con l’altro.
Il primo è La bambina che amava Tom Gordon (The girl who loved Tom Gordon), uno dei punti più bassi della narrativa del genio del Maine, sorta di favola dai contorni gotici che non riesce né a spaventare, né a commuovere né tantomeno a coinvolgere in qualsiasi maniera.
E forse proprio l’onda lunga di questo librettino servì a coprire l’uscita di un capolavoro massimo, appunto Cuori in Atlantide, che evidentemente la stampa e i fan hanno trascurato traslando la delusione (ingiusta) degli scorsi anni e quella (giustissima ma spropositata) di Tom Gordon. Cuori in Atlantide è in realtà una raccolta di cinque storie sottilmente e intimamente legate fra loro, collocate temporalmente in epoche differenti ma con una compattezza d’intenti, una linearità espositiva e nel contempo una forza disgregatrice che si dipana in mille sottopensieri e altrettanti sottotesti da lasciare a bocca aperta.
È uno sguardo disilluso sulla Storia, l’incapacità dell’uomo di venirne a patti; King recupera in maniera esemplare la sua umanità descritta innumerevoli volte in precedenza, centrando le mire altissime e cosmiche da Storia dell’Uomo e della Storia, che lasciano il segno, indelebili. La prosa del Re si espande come un blob in avanti e indietro, tra passato e futuro, ma soprattutto fra interiorità ed esterno, fra intimo e realtà, sublime, come una macchia d’olio inarrestabile.
È il processo inzigato con Il Gioco di Gerald che raggiunge le sue vette altissime, è lo stream of consciousness di cui ormai lo scrittore è completamente padrone e con il quale riesce a commuovere, a catturare, a dire cose grandissime con frasi e modi di dire piccolissimi, a generare emosioni fortissime con storie semplicissime.
Eppure, questo capolavoro è rimasto pressoché sconosciuto con il passare del tempo. Perché? Lo dicevamo sopra, per l’insaziabile “bulimia da tastiera” dell’Autore (per i suoi molteplici libri nello stesso anno che sommano e a volte annullano l’uno con l’altro i risultati dei diversi libri), ma anche e soprattutto per colpa di Scott Hicks, che di Cuori in Atlantide fece un filmetto patetico e lacrimevole.
La sorte di un libro è profondamente legata, massmediaticamente, al film che lo porta sugli schermi di tutto il mondo: Hearts in Atlantis, essendo chiaramente un blockbuster (tra gli intepreti, un Anthony Hopkins ai minimi storici), è arrivato capillarmente dappertutto, cementando la fama del libr come di operetta sdrucciola e arteriosclerotica. Ma ora attenzione: dietro l’angolo, per King, c’era la Realtà più spietata ad aspettarlo.
Da La Tempesta del Secolo a Passaggio Verso il Nulla
Per quanto sia conosciuto, e amato, e per quanto pressoché quasi ogni abitante del mondo civilizzato sappia (almeno per sentito dire) chi sia Stephen King, neanche la metà di tutta questa gente è a conoscenza del fatto che il 19 giugno 1999 lo scrittore vivente più famoso al mondo ha rischiato di morire.
E chi ha visto il serial Kingdom Hospital (bizzarro e sui generis remake televisivo del capolavoro di Lars Von Trier quasi omonimo, The Kingdom, sorta di Twin Peaks all’Europea) ha potuto vedere con i propri occhi (la ricostruzione del) l’incidente occorsogli in quel giorno fatale: stava facendo jogging per una semideserta strada in un bosco del Maine, quando all’improvviso un camion gli si è sfracellato addosso.
C’è chi dice, non poco cinicamente, che tale incidente abbia conferito a King nuova vita e nuovi orizzonti; una seconda vita, insomma. Sta di fatto che la metamorfosi di cui stiamo parlando da parecchie puntate (da abilissimo scrittore horror che filosofeggiava per metafore, ad Autore Moderno a tutto tondo) dopo tale incidente sia stata completata.
È da Mucchio d’Ossa (Bag of bones, 1998) che nelle pagine di King latitano orrori propriamente detti; ma dopo il 1999, la prosa di King subisce una svolta definitiva, ed il suo stesso interesse, la sua stessa propensione verso la pagina scritta mutano neanche tanto impercettibilmente.
Con La Tempesta del secolo (Storm of the century, 1999), Il diario di Ellen Rimbauer:la mia vita a Rose Red (Diary of Ellen Rimbauer: my life at Rose Red, 2001), On Writing (id, 2000), Passaggio verso il nulla (Riding the bullet, 2002), King inizia a battere nuove strade espressive. La Tempesta del secolo (come anche Ellen Rimbauer) è una vera e propria sceneggiatura, e non è mai uscito sotto forma di romanzo; oltretutto, una delle opere di King che può vantare una trasposizione per la televisione di rara intensità.
Il serial tv in quattro puntate, Storm of the century, è una storia bella e molto inquietante, complessa nelle sue scelte ma soprattutto nella sua (a)moralità. Le coordinate appartengono all’immaginario kinghiano che ormai conosciamo a memoria: una piccola comunità, i suoi componenti con i loro vizi e virtù, il male che improvvisamente e con forza che prende piede. Non pensate neanche minimamente di poter intuire lo svolgimento della storia: qui King non concede speranze, tutto si sfascia, tutto si sgretola.
È l’inizio di pagine straordinarie, spessissimo di una cattiveria e di una crudeltà che poco hanno a che spartire con vampiri (bei tempi!), di un pessimismo atroce. Un nuovo orizzonte morale, che si dipana nelle opere di sopra e soprattutto in On Writing, una autobiografia-saggio raccontata con gli occhi ancora umidi di commozione di chi ha visto la morte in faccia, senza sconti, senza pietismi. Non c’è bisogno più di raccontare di mostri per far paura: basta guardare in faccia la vita.
La Storia Di Lisey
Abbiamo accennato agli orizzonti puramente artistici del King che ultimamente si sono come moltiplicati. Un libro uscito come sola sceneggiatura (citato la scorsa settimana) come La Tempesta del secolo, oppure un finto diario à làBlair Witch Project titolato Il Diario di Ellen Rimbaud, entrambe le opere diventate poi ottime trasposizioni televisive (il secondo con il titolo di Rose Red, inspiegabilmente mandato sotto silenzio da RaiDue l’estate scorsa);
racconti destinati all’e-commerce, ovvero la vendita solo tramite internet, come Riding the Bullet-Passaggio verso il nulla -poi messo in commercio anche in libreria però come audio book; ancora il misconosciuto The Plant (nato, sentite questa!, come romanzo a puntate da regalare agli amici a Natale, poi diffuso tramite la rete); e pure lo splendido (ma un po’ più vecchiotto, parliamo del 1996) Il Miglio Verde (The Green Mile), uscito in edicola sotto forma di romanzo d’appendice, e dilatato nelle sue sei puntate in due mesi.
Come si è abbondantemente detto, una bulimia artistica che si espande come un blob in pressoché tutti i campi della comunicazione, a cui va aggiunta la Settima Arte: perché abbiamo ampliamente trattato, lungo il nostro cammino nell’opus magnum kinghiano, delle trasposizioni cinematografiche, televisive e per il mercato straight to video che fanno di Stephen King uno degli scrittori, se non lo scrittore, più sfruttato dal cinema. Insomma, un vero e proprio dilagare, una marea che assale i mass-media e ancora oggi non accenna a diminuire, anzi si è trasformata in una vera e propria industria d’intrattenimento.
Libri, audio-book, internet, film, telefilm: e (ma quest’argomento lasciamolo per la prossima, e ultima, puntata) vieppiù i fumetti. Arriviamo allora all’ultimo (in ordine di tempo) libro del Re del Maine, La storia di Lisey (Lisey’s story, 2007): il compimento massimo della sua prosa, il definitivo assoggettamento allo stream of consciousness di joyciana memoria- un miasma assoluto, impervio e affascinante, di pensieri e parole che lasciano di stucco, al di là della storia nuda e cruda.
E al diavolo una volta per tutte la grammatica ed il periodare: un crescendo senza sosta di libertà linguistiche sperimentali, un parlarsi addosso, contro, verso, dentro sé stessi, al nulla, in una circonferenza di prossimo disastro che crea ansia e tensione.
È questo il King di oggi, è questo il Supremo narratore che si è conquistato pian piano fette di mercato e frotte di appassionati per poi sconvolgerli e mutare in Autore quasi d’avanguardia, libero dalle costrizioni del mercato e del “buon narrare” ma contemporaneamente e saldamente alla guida di un vero e proprio impero mediatico che fa da contraltare alla sua decostruzione e sperimentazione narrativa. Stephen King è perciò a tutti gli effetti uno dei massimi esponenti della narrativa mondiale, uno dei pochissimi autori che hanno saputo interpretare finemente e lentamente decostruire e ricostruire l’immaginario fantastico e interiore della cultura pop del ventesimo secolo.
La Torre Nera
Non si può passare oltre senza aver parlato dell’altro caposaldo della produzione kinghiana, una sorta di spartiacque narrativo e concettuale, ovvero l’opera più grande, affascinante, sperimentale, lunga (siamo sulle 6000 pagine…), e forse più sconosciuta? Si tratta de La Torre Nera (The Dark Tower); che è un’opera lunga sei libri iniziata nel 1982 e conclusasi solo nel 2012 (la cronologia completa: L’Ultimo Pistolero-The Gunslinger, 1982; La Chiamata dei Tre-The Drawing of the Three, 1987; Terre desolate-The Waste Lands, 1991; La Sfera del Buio-Wizard and Glass, 1997; I Lupi del Calla-Wolves of the Calla, 2004; La canzone di Susannah- Susannah’s song, 2004; La Torre Nera-The Dark Tower, 2006, La leggenda del vento, The Dark Tower: The Wind Through, 2012).
Come si può ben capire, la vastità dell’opera è pressoché enciclopedica, per forza di cose trattandosi di un libro dilatato nell’arco di 25 anni; ma è anche il Sogno con la S maiuscola di Stephen King, la sua ossessione, il progetto a cui ha sempre tenuto di più.
Ed è la storia di Roland Deschain di Gilead, un pistolero del Medio-Mondo alla ricerca della mitologica Torre Nera, un luogo in cui convergono le infinite realtà dell’universo, geografia di conoscenza; è ovviamente la storia del suo viaggio che diventa viaggio dell’esistenza stessa.
La Torre Nera è realmente un masterpiece inarrivabile, un monolito kinghiano inavvicinabile per la profondità delle tematiche trattate (la vita e la morte, le infinite realtà che viviamo e nelle quali viviamo, il Bene e il Male, l’amicizia, l’amore; e tutte le infinite sfumature che stanno nelle distanze che legano questi estremi, infinite sfumature di grigio vere come la vita vera); ma è anche, proprio a causa della sua spropositata grandezza materiale e contenutistica,
l’opera kinghiana più di nicchia, quella che meno ha goduto del tam-tam mediatico se non tra gli appassionati e i conoscitori; questo nonostante con il passare degli anni (e lo scorrere delle sue 6000 sterminate pagine) La Torre Nera abbia convinto definitivamente più di un critico della assoluta validità di King come scrittore puro, e della sua capacità di costruire un vero e proprio universo letterario, dove far confluire in ogni maniera la sua arte.
Non solo per modo di dire; Stephen King è, in maniera quantomeno bizzarra, uno dei protagonisti del penultimo libro, The Dark Tower, rendendolo esempio fulgido di meta-letteratura, per come frantuma la quarta barriera e per come riesce, con fluidità da far invidia, ad unire temi e tematiche in modo disinvolto e assolutamente naturale.
E per certi versi, con un abilissimo, astuto quanto semplice artificio narrativo che non vi svelerò certo in queste righe, La Torre Nera riesce anche a rendere compatto tutto il mondo kinghiano, a partire dalle Notti di Salem a Cuori In Atlantide (1999), facendo convivere persone e personaggi in un organico che non può non regalare brividi di perverso piacere letterario.
La Torre Nera ha sancito l’ingresso di King in uno dei media (l’ultimo!) che ancora non aveva invaso, ovvero i fumetti: la casa editrice Marvel Comics ha dato infatti alle stampe sette miniserie di sette album ciascuna, raccontate da due dei suoi più grandi autori, l’irresistibile Peter David per i testi e il gotico e sinuoso Jae Lee per i disegni, e che narrano delle avventure di Roland di Gilead prima di ciò che avviene nei tomi della Torre Nera.
Da L’Acchiappasogni a Billy Summers, passando per la trilogia hard boiled
Negli anni Duemila la produzione di King ha definitivamente sterzato verso il romanzo di formazione con tinte oscure, definendo e sdoganando l’autore del Maine come un punto fermo della narrativa contemporanea.
Se all’inizio (anni Settanta e Ottanta) la popolarità di King, cresciuta anche grazie ai grandissimi registi che hanno portato sullo schermo i suoi libri –Kubrick, De Palma, Darabont, Romero…- aveva giocato a suo sfavore per la radicata quanto errata convinzione che essere popolare non poteva coincidere con essere bravi; tra la fine dei Novanta e il Duemila queste barriere sono miseramente crollate, attribuendo a King lo status che merita.
L’originalità di uno scrittore è determinata dal suo stile, che è poi la sua voce: e King una voce personal ce l’ha eccome. Non ha gli svolazzi musicali di Celine né un lessico arcaico o forbito, ma si avvicina -per profondità di contenuti e capacità di visione- a quel Dickens più volte nominato, diretta (un po’ come Buzzati), lineare, verosimile, matura.
C’è poi da considerare la poetica. Un nucleo emotivo e tematico che contraddistingue un autore e gli dà peso letterario: e se si vuole conoscere la provincia americana, quella lontana dalle mille luci di New York o dagli abbaglianti luccichii di Losa Angeles, un romanzo come Il Bazar dei BruttiSogni, o la trilogia Mr. Mercedes/ Chi Perde Paga/ Fine Turno, sono i viatici migliori, al pari forse dei libri di Salinger o Carver. Stephen King dopo il 2000, dopo L’Acchiappasogni, è sempre più padrone del suo universo per come riesce a giocare su più registri, mescolare tematiche, inventare personaggi diversi e tutti profondamente, innegabilmente credibili, veri, reali.
E se per alcuni autori moderni come Poe, Kafka, Bukowski, gli stessi Salinger e Carver, hanno tematiche e ossessioni ricorrenti e definite, dalla solitudine dell’uomo perso nella società dei consumi, o la tensione verso l’assoluto, King invece è stato in grado, e lo è ancora, di rielaborare e rilanciare romanzi sempre di successo, illuminando sempre scorsi differenti sull’oscura natura dell’anima umana.
Perché sa raccontare tutto, ha una visione d’insieme incredibile e meravigliosa.
King è senza ombra di dubbio un grande scrittore come ormai nessun critico riesce a negare fino in fondo, un vero e proprio fenomeno letterario capace di raggiungere vette sublimi con l’empatia che parte dalla paura e arriva al sorriso, mentre cattura inesorabilmente il lettore in un reticolo di panico e orrore.
Ogni suo romanzo è un saggio sull’America di oggi (e di ieri), che centra i conflitti ideologici più attuali sia politici che sociali, salendo su su fino ad arrivare ad una definizione dell’essere umano che trova la sua identificazione in quell’elemento spesso soprannaturale ma sempre metafora del continuo tentativo di accaparrarsi quanto più potere possibile per sottomettere i propri simili.
Le pagine di King trasudano con trasparenza di dettagli simbolici, chiarezza di immagini e complicità morbose con il lettore: i suoi romanzi non sono “romanzi sulla giovinezza perduta” o sugli incubi adolescenziali, sono libri per adulti che raccontano la vita, l’amore e la morte e lo fanno con una spietatezza e una sintesi che a molti sono purtroppo ancora sconosciute.
22/11/63, Joyland e Revival confrontano il senso della vita; The Outsider è l’apoteosi di alcune linee tematiche come la violenza sui puri, la periferia americana che sotto l’ipocrisia nasconde orrori indicibili, l’ambigua e opaca natura umana che può essere squarciata solo con uno sforzo di fede nel soprannaturale; Billy Summers indaga la cattiveria e il labile confine dei codici morali degli antieroi.