Non basta che il libro sia stato un fenomeno editoriale per rendere il Fabbricante di Lacrime un film interessante o a malapena godibile. Stereotipato, noioso, mal girato: tutti elementi per far sì che occupi un posto in questa classifica. Le carenze del film emergono fin dai primi minuti. La storia si apre con la giovane Nica che intraprende un viaggio in auto con i genitori.
Alla guida, il padre si distrae a causa di un lupo che Nica vede correre accanto al veicolo, provocando un incidente fatale. La scena dell’incidente è ridicola sia dal punto di vista fisico che logico: l’auto si schianta frontalmente contro un camion, che sembra uscito da un film di Transformers, su un rettilineo ampio e visibilissimo.
Un impatto impossibile da evitare? Sicuramente impossibile da non vedere. Eppure, l’incidente avviene. Ed è così che vediamo Nica distesa sulla strada, apparentemente uscita indenne se non per qualche livido, mentre l’auto ribaltata si trova a due metri di distanza, priva di segni di schiacciamento o danni significativi. Anche il mistero di come Nica sia stata sbalzata fuori dall’auto rimane senza risposta, dato che i vetri del veicolo sono intatti.
Nonostante l’assurdità di tutto ciò, la trama richiede che sia l’unica sopravvissuta. Rimasta dunque orfana, Nica viene affidata all’orfanotrofio di Sunnycreek, dove trascorre anni a subire le angherie della direttrice Margaret e in cui apprende la storia del fabbricante di lacrime, un misterioso artigiano, colpevole di aver forgiato tutte le paure e le angosce che abitano il cuore degli uomini.
All’età di sedici anni viene finalmente adottata da Anna e Norman Milligan, una coppia che, dopo aver ascoltato una melodia al pianoforte suonata da Rigel (un altro orfano, notoriamente ostile verso Nica), decide di adottare anche lui, in quella che somiglia più ad una logica da supermercato. Mi piace? Lo prendo.
Nica e Rigel si trovano così a convivere sotto lo stesso tetto, in un rapporto che scimmiotta maldestramente dinamiche noiose già viste in altri film penosi per adolescenti, con la differenza che qui non si riesce a capire dove la storia sia ambientata. Gli edifici e le strade richiamano uno stile americano, i nomi dei personaggi sono anglofoni, ma tutti gli interpreti sono italiani.
Chi ha letto il libro sa che la vicenda si svolge negli Stati Uniti, ma il film non fa alcuno sforzo per adattare l’ambientazione in modo convincente. Questo porta a un risultato finale profondamente incoerente, che compromette la credibilità della storia e ne snatura il senso dall’inizio alla fine.
E come se ciò non bastasse, gli attori contribuiscono a peggiorare ulteriormente la visione, con battute mediocri che sembrano uscite da un manuale di sceneggiatura per principianti. Inoltre, a causa della loro interpretazione o di una cattiva ripresa sonora, spesso risulta difficile capire cosa stiano dicendo.
Non che il pubblico perda molto: le brutture di regia e montaggio rendono l’esperienza visiva altrettanto frustrante, ma fanno il favore di ampliare il manuale di come non adattare un bestseller.