Shōgun è il secondo adattamento per il piccolo schermo dell’omonimo libro di James Clavell, a sua volta ispirato alla vera storia dello shogunato Tokugawa e, se non è perfetto, è quanto di più vicino si possa aspirare alla perfezione. La recitazione in Shōgun è semplicemente eccellente. Non esiste un personaggio fuori posto, una parte sottotono. Ogni personaggio ha una sua chiara identità che traspare tanto dalla recitazione vocale quanto da quella fisica: un elemento fondamentale in una cultura in cui il non-detto pesa quanto e a volte ancora di più di quello che viene detto ad alta voce.
Guardando la serie si ha veramente l’impressione di guardare il Giappone del 1600, con una cura dei dettagli che rasenta l’ossessione, con qualche inevitabile libertà (non era possibile avere le comparse camminare scalze per motivi di sicurezza sul set) ma anche queste sono percepibili solo dai più appassionati e dagli esperti. La storia è stata battezzata il “Game of Thrones” giapponese, ed è ricca di intrighi, di giochi politici, con i giusti tocchi di violenza (mai glorificata ai limiti del grottesco come altri fanno) e di azione. Il tutto mescolato con la filosofia nipponica, che viene affrontata con assoluto rispetto.
Questa serie non presenta nemmeno un aspetto criticabile, a parte forse l’incertezza del CGI nel riempire gli sfondi. Il pacing è gestito con abilità, una storia che sa dove prendersi il suo tempo, dove accelerare, dove fermarsi e su cosa indugiare. Una storia che richiede tutta l’attenzione dello spettatore, che vale anche la pena vedere più volte per cercare tutti quei dettagli che ci erano inizialmente sfuggiti. In definitiva, questa è una serie che trasuda rispetto e amore per il materiale originale nonché per la cultura giapponese, senza però osannarla o feticizzarla.
+1) Squid Game – Stagione 2
A cura di Andrea Campana
E non potevamo non aggiungere, come menzione speciale, la seconda stagione di Squid Game. La troviamo fuori classifica, ma chiaramente da citare, non solo perché è uscita quasi alla fine dell’anno – il 26 dicembre – ma specialmente perché funge da stagione “di mezzo”, in preparazione degli eventi della terza – che uscirà nel 2025.
Il fatto che la fine della seconda stagione della serie coreana non coincida – come nella prima – con la fine di un’edizione del gioco (o meglio, della sequenza di giochi) e la proclamazione di un vincitore ma si fermi invece a metà di questa edizione, la rende in pratica una “stagione a metà”.
Che non è una brutta cosa, ma rende difficile inserire Squid Game 2 tra le migliori stagioni di serie dell’anno perché funge in pratica da “Finale, parte 1”, diciamo. Cosa che, certo, non la rende assolutamente meno avvincente o intrigante di quanto fosse legittimo aspettarsi, anzi.
Il ritorno del mitico Seong Gi-hun è fulminante ed esplosivo, e pazienza se i giochi sono solo tre e se gran parte degli episodi è dedicata a momenti più drammatici e filosofici che action o, sia pure, violenti. La formula di Squid Game, scritta, ideata e diretta sempre dal genio di Hwang Dong-hyuk, funziona ancora e pure bene.
Il punto sta nel capire che non si tratta solo di una serie thriller in cui i concorrenti prendono parte a sfide mortali, ma di una grande metafora della società e dei rapporti umani – nonché del capitalismo e delle sue infinite lacune e ipocrisie – che ha solo in parte la mira di intrattenere. Quel che vuole fare Squid Game è far riflettere su come funziona la nostra società, e a fondo.
Presa così, con tutto il contorno filosofico e morale, si distingue per spessore ancora e tranquillamente da gran parte delle serie contemporanee – sì, pure da quelle Netflix – e si riconferma come grande fenomeno seriale degli anni ’20. Chiaramente il giudizio definitivo arriverà solo con la terza stagione, che speriamo esca presto.