Uscito nelle sale a inizio di quest’anno, La zona di interessenon ha avuto bisogno di competere per rientrare in quella lista. Il film, curato nei minimi dettagli – dalla storia, alla regia, al sonoro – si presenta come uno dei film migliori realizzati sull’Olocausto, o per meglio dire, sull’incapacità di vedere il male.
Ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, la storia prende piede nel 1943: Rudolf Höß, membro delle SS, vive una vita tranquilla all’interno di una villa borghese, assieme alla moglie Hedwig e ai loro cinque figli all’interno della cosiddetta zona di interesse, un’area di circa 25 miglia che costeggia il campo di concentramento di Auschwitz, di cui è comandante.
I due ambienti sono separati da un lungo muro recintato, ma di fatto non viene mai mostrata la brutalità del genocidio consumato all’interno di quelle mura. Il fatto di non vedere mai quel tipo di male pone l’accento su un altro tipo di male, forse ancora più crudele: l’indifferenza e l’apatia. Ciò che rende La zona di interesse un capolavoro è il modo in cui viene costruito il contrasto tra la quotidianità della famiglia borghese e l’orrore della morte, inducendo una riflessione agghiacciante sulla banalità del male.
Infatti, per buona parte del film assistiamo alla quotidianità della famiglia scandita da attività comuni, mentre in sottofondo percepiamo un suono disturbante, sempre presente: urla, rumori di treni e di fornaci provenienti dall’altra parte del muro. L’indifferenza verso quel dolore inflitto emerge ulteriormente in alcune sequenze in cui la famiglia si appropria di abiti e oggetti dei prigionieri, incurante della loro provenienza.
La loro quotidianità viene mostrata con una crudeltà silenziosa. Attraverso un approccio minimalista, fatto di inquadrature quasi sempre fisse che riprendono le attività che si svolgono all’interno della zona, come se fossero registrate da una telecamera di sorveglianza, e un uso del sonoro che rappresenta l’invisibile, il film racconta la tragedia del non voler vedere l’orrore e del non riconoscerlo, invitando lo spettatore a confrontarsi con ciò che non si vede.
Per una serie di motivi, possiamo affermare che La zona di interesse merita di occupare un posto in questa classifica. Il film è infatti capace di raccontare la tragedia dell’Olocausto mettendo in evidenza come vivere la quotidianità , ignorando le tragedie che colpiscono il mondo, rappresenti una forma di indifferenza e complicità . Questo atteggiamento non lascia le mani pulite; al contrario, evidenzia come chi non si impegna per essere parte della soluzione finisca inevitabilmente per essere parte del problema.
1) The Substance, Coralie Fargeat
A cura di Matteo Furina
Ed eccoci dunque alla vetta della nostra classifica. Sebbene questo 2024 abbia visto l’arrivo in sala moltissimi film di alto livello, a dominare non poteva che essere The Substance, horror firmato dalla talentuosissima Coralie Fargeat e con protatoniste Demi Moore e Margaret Qualley.
Si tratta di un body horror di stampo cronenbergeriano che però riesce a distaccarsi dal grande maestro del genere brillando di luce propria. Uno infatti dei grandi meriti della Fargeat è infatti quello di citare in continuazione altri capolavori del cinema, con inquadrature ideate da altri geni della settima arte in un genere che all’apparenza aveva detto tutto, eppure essere unica.
The Substance infatti col suo sottotesto politico e critico nei confronti dell’atteggiamento di certi settori dello shobiz che pone una ‘data di scadenza’ alle donne e con la sua sceneggiatura brillante e ficcante, riesce a essere originale e fresco.
La storia segue Elizabeth Sparkle, una star della televione e del cinema che, giunta a 50 anni, viene messa da parte destinata all’oblio. In suo soccorso arriva una misteriosa organizzazione che le fornisce la sostanza che dà il titolo al film con la quale viene generata una versione migliore di lei, l’avvenentissima Sue. Se già questa premessa fa venire l’acqulina in bocca, il proseguo del film e il suo scioccante finale non fanno altro che cementare l’idea di aver davanti un film pronto a entrare nella storia.
Davvero notevole la performance di tutto il casto. A partire dalle due protagoniste, con una Demi Moore in un ruolo quasi autobiografico e una Margaret Qualley di una bravura e di una bellezza stordente, passando per i comprimari, come il viscido e disgustoso Harvey interpretato da Dennis Quaid.
Coralie Fargeat gioca tutto il film sul sottile equilibrio che divide la bellezza del corpo in determinati frangenti al disgusto totale che produce in altri. Ogni elemento, sia visivo che acustico lavora in tal senso e riesce a regalare allo spettatore un film che, senza troppi timori di smentita, può essere definito come ‘un’esperienza’ che qualsiasi amante del cinema deve fare. Non possiamo che consigliarvelo ringraziando la Fargeat per il grande coraggio messo nella realizzazione di questo film.