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Qui Non È Hollywood è una miniserie in quattro puntate, che rilegge i fatti di Avetrana, disponibile su Disney Plus.
Scopriamo la genesi della serie del momento, ispirata ad uno dei fatti di cronaca nera più atroci degli ultimi anni
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Qui Non È Hollywood è una miniserie in quattro puntate, che rilegge i fatti di Avetrana, disponibile su Disney Plus.
Acclamata dalla critica, è un’opera che si inserisce perfettamente nella filmografia del regista, Pippo Mezzapesa, nel momento in cui unisce mirabilmente e con incredibile equilibrio il suo stile deformante e quasi onirico ad un evento di cronaca nera. Rifuggendo dai luoghi comuni, dal racconto cronachistico (che pure c’è), e declinando personaggi e vicende con uno stile personalissimo e affascinante e restituendo un agghiacciante ritratto della nostra epoca, di quell’horror social show che giorno per giorno ci trasforma in mostri.
GIANLORENZO FRANZÌ: Qui Non È Hollywood riprende il tristemente noto caso di Sarah Scazzi, vorrei partire proprio da qua: mi è sembrato un serial nel quale sei riuscito ad adattare il racconto di cronaca al tuo stile, alla tua poetica, al tuo universo artistico. Soprattutto al senso mistico ed arcaico di Morte e del Meridione che ritorna nel tuo cinema e nella tua produzione. Com’è nato il tuo interesse verso questa storia?
PIPPO MEZZAPESA: L’interesse c’è stato sin da quando l’ho seguita, da spettatore, vicino anche, perché io vivo a poca distanza da Avetrana. È una storia che ho sempre seguito con interesse e che ho sempre creduto potesse essere materia di racconto giornalistico, com’è avvenuto in quei giorni, ma anche narrativo e artistico.
Mi sono sempre chiesto come potesse essere sforzarsi di entrare in quelle mura domestiche, nelle loro psicologie, come sarebbe stato spogliarli del velo di personaggi e riconnettersi con la loro umanità. Ed è un po’ quello che ho sempre cercato di raccontare nei film e nei documentari: l’essere umano incastonato in un contesto sociale, in un luogo che ne costruisce la psicologia, e questa storia si prestava molto bene anche perché è una storia, una tragedia famigliare, la storia di due famiglie e spesso ho raccontato delle storie famigliari all’interno di un contesto arcaico, meridionale, che mi piace esplorare.
A proposito di questo: nei tuoi film c’è sempre il Sud, ma non è la facile cartolina del Meridione o della Puglia, ma un sottotesto quasi antropologico, metafisico, che va al di là della terra anche se poi si ricollega sempre a qualcosa di molto fisico. Credo sia la chiave giusta per raccontare il Sud Italia, renderlo riconoscibile per chi lo vive o lo ha vissuto, ma nello stesso tempo esportarlo e farlo universale e affascinante per tutti. Che lavoro fai sulle location, sulle immagini, sulla fotografia?
Sai, legandomi alla questione del raccontare il Sud in maniera non oleografica e da cartolina: se il Sud lo vivi, se un luogo lo conosci profondamente come io conosco la mia terra per ovvi motivi, perché io continuo a viverci, ci ho sempre vissuto, è difficile che si possa raccontarla come una cartolina. È più naturale che la si racconti onestamente, senza rifuggire dalle ferite, dalle ombre, non sono mai stato per il racconto che mette in luce solo la luce… la fotografia per me, l’impatto visivo che una storia deve avere, è fondamentale.
E soprattutto in questa storia che ho raccontato, il ruolo della fotografia è centrale. Abbiamo deciso a monte, essendoci questa suddivisione dei punti di vista, di seguire la storia, di assecondare questi punti di vista con una diversa regia e una diversa fotografia, che si fa sempre più cupa, passa dalla luminosità he delinea il racconto dell’adolescenza di Sara arrivando alla discesa finale nella casa-tomba con Cosima.
I luoghi mi piace descriverli e raccontarli come se potessero interagire con i personaggi, come fossero loro stessi personaggi e non dei cornici, dei contesti. I luoghi sono sempre caratterizzati dalle persone che li vivono, e caratterizzano le persone che li vivono, e lo studio scenografico, fotografico ma anche registico per muoversi in un luogo è fondamentale.
Questo esce tantissimo dai tuoi film, mi viene in mente Il Bene Mio con Sergio Rubini, in cui il paese era proprio un personaggio. Parlando di personaggi di Qui Non È Hollywood, c’è un lavoro incredibile che hai fatto con gli attori. Al di là della semplice mimesi, del trucco che ha reso gli interpreti incredibilmente simili dal punto di vista fisico ai protagonisti della storia, mi sembra ci sia qualcosa di più intimo, di più sottile, che hanno tirato fuori. Che procedimento hai adoperato con loro?
Il lavoro con gli attori è stato molto rischioso, concettualmente…
…questo forse anche perché è difficile rappresentare qualcuno al cinema mentre è ancora in vita…
Concettualmente rischioso, si. Tant’è che le polemiche che ci sono state sul manifesto, a prescindere dalla resa estetica, sono state alimentate dagli attori che sembrano vestiti dai personaggi. Quando li vedi infatti solo in un manifesto, solo in uno scatto, possono farti un effetto straniante. Effetto che scompare nel momento in cui vedi gli attori muoversi nello spazio, per come sono stati in grado di diventare quegli individui.
Il lavoro è stato molto rischioso perché quando si raccontano queste storie, questi personaggi così conosciuti e iconici, è impossibile discostarsi dalla loro fisicità, sarebbe stato assurdo mettere in scena e far recitare attori che non somigliassero a persone così note. Però, allo stesso tempo, si corre il rischio della ridicola imitazione, del grottesco.
Siamo riusciti a mantenerci, credo, in equilibrio, grazie al grandissimo talento degli interpreti, che appunto hanno accettato la mimesi ma hanno (oltre ad ingrassare 20 kg come Giulia Perulli, a diventare Zio Michele come Paolo De Vita, o a lavorare con un trucco che necessitava 6 ore di preparazione per mettersi addosso chili di prostetico come Vanessa Scalera) entrati nella testa, hanno studiato un modo di porsi nei confronti del mondo delle telecamere, e questo è come se avesse amalgamato tutto quanto.
Parlando del poster ufficiale, e la polemica che lo ha visto al centro, sui social: dal mio punto di vista, richiamava un altro, ovvero quello di Omicidio all’Italiana di Maccio Capatonda, che era un racconto grottesco sul social horror show che imbastiscono i media, nel tipico tono sopra le righe di Maccio che non è mai banale o buttato via come si potrebbe pensare.
Per questo, ho trovato intrigante il richiamo a quel film, in una sorta di cortocircuito interessante che restituiva anche la situazione dei giornalisti, che con Avetrana hanno fatto un piccolo, orrendo show televisivo. In questo, bravissima Anna Ferzetti ad interpretare la sua giornalista Daniela, in sottrazione…
Non so se il manifesto poi fosse giusto o meno, ma ha quegli elementi di assurdo/contrasto/commistione che ha la serie. Qui non È Hollywood ha dei toni che non sono facilmente riconoscibili… e quindi forse alla fine si, era giusto! Ma ormai è andata. Per quanto riguarda la Ferzetti merita sicuramente un plauso e delle parole di lode, perché il suo era un ruolo molto spinoso: rappresentare una categoria che in quel periodo ha cannibalizzato tutto e non ne è uscita neanche benissimo.
Lei rappresenta invece l’umanità dei giornalisti che sono stati presi e sbattuti ad Avetrana, dovevano ovviamente andare a caccia di notizie e fare il loro lavoro, e come tutti quanti sono stati un po’ fagocitati dalla situazione, dal caso, da quel circo mediatico che hanno contribuito loro a creare ma ne sono stati anche coinvolti.
C’è la fragilità, in quell’interpretazione, l’approfondimento psicologico su un personaggio che si interroga su quanto sti diventando sciacallo, quanto stia legando affettivamente con queste persone, quanto stia mantenendo la propria lucidità: era qualcosa che mi piaceva indagare e che con la Ferzetti è diventato ancora più profondo.