Anora, Recensione del film vincitore al Festival di Cannes

Al cinema dal 7 novembre, Anora, nuovo film diretto da Sean Baker che lo consacra definitivamente come regista da seguire con attenzione. Ecco la nostra recensione.

Anora, recensione, Mickey Madison
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Dopo aver presentato grandi titoli di Cannes come The Substance ed Emilia Perez, il Festival di Roma non si fa sfuggire neanche la Palma d’Oro, Anora, il cui premio ci è parso più che giusto. Finalmente un autore come Sean Baker riesce ad attirare a sé la luce dei riflettori, dopo aver diretto grandissimi film come Tangerine, Un Sogno Chiamato Florida e Red Rocket. Film dissacranti che guardano agli emarginati degli Stati Uniti e della sua provincia. In tal senso, anche Anora prosegue questa poetica, seppur con alcune differenze che consacrano il cinema di Baker tra i registi più interessanti da seguire.

Anora, la Trama

Nel freddo inverno di New York, c’è Anora, Ani per gli amici, che fa la spogliarellista in un locale. Di origini russe, un giorno per caso incontra Ivan, Vanja per gli amici, che si innamora perdutamente di lei. Così, l’avventura di una notte dietro compenso inizia a diventare qualcosa di più grande, decisamente più grande. Finché la sua famiglia, ricchissima e composta dai così chiamati ormai “oligarchi“, non si oppone formalmente al loro matrimonio, scatenando un putiferio che inevitabilmente coinvolgerà anche Ani.

Anora, la Recensione

Cantava Frankie Hi-Nrg, nel suo capolavoro Quelli Che Ben Pensano, che “gli ultimi resteranno ultimi, se i primi sono irraggiungibili“. Si può riassumere così il cinema di Sean Baker, che guarda a questi ultimi da vicino, indagandoli nelle loro vite contraddittorie rispetto a quello che è il famigerato sogno americano. Un sogno che per l’appunto sembra essere tale, ben lontano dalla realtà del self-made-man tanto decantato. Un tema che viene sviscerato in ogni sua forma, da più punti di vista contestualizzati da vari personaggi a loro modo maledetti.

Questa maledizione colpisce anche Anora, interpretata magistralmente da Mickey Madison che conferma la sua ascesa dopo C’era Una Volta a… Hollywood, che la vede chiusa in un ascensore sociale non funzionante. Perché chi nasce tondo non può morire quadro, neanche quando tutto sembra andare per il meglio. Lei, l’ultima, non può quindi procedere alla scalata tanto agognata, è costretta suo malgrado a restare dove si trova, esattamente come tutti gli altri personaggi.

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Se la scena finale di Un Sogno Chiamato Florida poteva lasciare un senso di speranza, in Anora c’è un pianto di rassegnazione ma anche liberazione. L’acquisizione di una consapevolezza precisa e triste, ossia quella che da quella decadente Brighton Beach non potrà uscirne mai, sebbene la sua riluttanza. Perché in fin dei conti, si tratta solo di accettare una vita che non si merita (e ci perdoni Maxine Minx per dissacrare il suo mantra).

Anora le prova tutte per fuggire, presentandosi e pretendendo di essere chiamata con un altro nome, un diminutivo, come per scrollarsi di dosso le sue origini. E prova a non accettare la vita che merita, tentando per l’appunto l’impossibile scalata sociale. Forse è amore vero, forse è solamente volontà di fuggire e cogliere al volo un’opportunità. Facile giudicare in maniera semplicistica e maschilista, relegando il giudizio a semplice approfittatrice, la ragazza. Dietro c’è molto altro, tanto.

Anora

Tre atti, diversi tra loro, con i quali Sean Baker ci porta dentro la vita di Anora. Da una versione dissacrante e realista di Pretty Woman ad una chiosa finale in cui Ani ha uno scatto di orgoglio e tristezza, passando per il secondo, meraviglioso, viaggio nella New York notturna e caotica, che fa da sfondo al momento più tragicomico del film. Una virata di genere che cambia radicalmente la prima parte, iniziando di fatto una vera e propria catabasi dantesca verso un finale malinconico. Più passa il tempo (nel film), più la situazione si incupisce e più Anora si copre fuori e si scopre dentro, invertendo il trend iniziale, dove si spogliava per essere guardata e mai vista, proteggendosi nelle sue forme.

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Così, il viaggio alla ricerca del Vanja scomparso nella vita notturna newyorchese, diventa un momento di formazione per Anora, anzi Ani, dove si confronta con sé stessa, con le sue scelte e la vita che la circonda. Mossa da un flebile barlume di speranza, la protagonista inizia questo viaggio interiore alla ricerca di un orgoglio perduto, sperando sempre che quanto fatto possa permetterle la vita che lei vorrebbe avere (e meritare). Una vita che sfiora solamente, salvo poi vederla svanire dalle sue mani perché è una vita che non può appartenerle.

Esattamente come una fiaba moderna e decostruita, fatta di principi e principesse sventurate, Anora mostra il lato umano di un sogno americano che per alcuni resta e resterà sempre un sogno, per l’appunto. Una storia di formazione personale che va oltre sé stessa, toccando i cuori di ogni spettatore, dove l’amore, anche cinematografico, non sembra esistere se non tra pari classi sociali. Tondo con tondo, quadro con quadro, senza mai mischiare le due forme (sociali), senza mai rendersi concentrici. Non è possibile questa mescolanza, non c’è amore che possa scalfire il muro dello status quo. Uno stato sociale che sembra quasi imporre il dover guardare dall’alto verso il basso chiunque. E Anora, presa la consapevolezza, non può che sfogarsi con chi, forse, è l’unico personaggio che ha saputo realmente capire chi lei sia.

Cast

  • Mickey Madison: Anora
  • Mark Eidelstein: Ivan “Vanja”
  • Jurij Borisov: Igor

Trailer

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RECENSIONE
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Lorenzo Pietroletti
Classe '89, laureato al DAMS di Roma e con una passione per tutto ciò che riguardi cinema, letteratura, musica e filosofia che provo a mettere nero su bianco ogni volta che posso. Provo a rendere la critica cinematografica accessibile a tutti, anche al "lattaio dell'Ohio".
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