The Substance, Recensione dell’horror con Margaret Qualley
La nostra recensione di The Substance, body horror diretto da Coralie Fargeat con Demi Moore e Margaret Qualley assolute protagoniste. Al cinema a partire dal 30 ottobre.
Nel 2016, con The Neon Demon, Nicolas W. Refn ci aveva già raccontato che la bellezza non è tutto ma è l’unica cosa. E quasi dieci anni dopo Coralie Fargeat riporta in auge il tema, dando una sua visione, simile per certi aspetti, diversa per altri. Cos’è la bellezza, dunque? Difficile rispondere, nonostante per secoli si è tentato di dare una risposta valida ed esaustiva per tutti. Ad oggi, la bellezza sembra voler dire essere accettati e guardati, in un costante rapporto di tensione tra l’essere oggetto passivo e attivo, guardati inconsapevolmente e consapevolmente. Pur sempre però, “l’unica cosa“.
Da questo rifiuto, parte quindi una storia basata su sguardi e dualismi, sulle persone e sulle personae (in latino, maschere) e di conseguenza sull’inevitabile alter ego social che ci costruiamo, su quella tensione costante che tutti noi subiamo consapevolmente o inconsapevolmente. Creazioni che portano alla distruzione del creatore, come un Prometeo contemporaneo e non più moderno. Gli omaggi ad un certo tipo di cinema sono molteplici, mai invasivi. The Substance è puro postmodernismo, dove gli immaginari vengono ripresi e omaggiati, quindi portati in una decostruzione progressiva, generando un qualcosa di nuovo e mai visto. Il che può suonare come un paradosso ma tant’è.
Coerentemente con la corrente horror francese di questi anni, The Substance abbraccia il cinema du corps riprendendo le questioni già poste nell’esordio intitolato Revenge (qui la nostra recensione), portando in scena domande implicite alle quali lo spettatore sarà costretto a rispondere. Un film che viaggia ben lontano da ogni qualsiasi comfort zone, che prova ad empatizzare con le donne e contestualmente a mettere in discussione il ruolo dell’uomo nel mondo. Chi è quindi che sbaglia? Impossibile non essere manichei nelle risposte, al netto delle sfumature che questa seconda opera contiene.
In tal senso, c’è una sequenza verso la quale è impossibile rimanere inermi. Elizabeth accetta un appuntamento con un suo vecchio compagno di scuola che la trova bellissima. Inizia a prepararsi ma non riesce a piacersi in alcun modo. Si veste, si trucca, si fa e si disfa. In un gioco di specchi, Demi Moore offre probabilmente la sua miglior interpretazione della sua carriera da attrice, senza proferire mai parola ma lavorando solamente sulle espressioni, tra rabbia e tristezza, fino a culminare con una scelta registica da brividi.
La Fargeat infatti, che usa sovente il fish eye proprio per deformare tutto ciò che inquadra, qui lo mette da parte, usando il pomello tondeggiante di una porta dove la Moore, di una bellezza straripante, si specchia e si vede per l’appunto deforme, come un primissimo piano fatto con un fish eye “naturale”. Un gioco di lenti e di controcampi che racchiudono il senso intrinseco del film, che restituisce il senso di inadeguatezza percepito da una donna che si vede sbagliata anche quando così non è.
The Substance vive in una costante tensione di opposti, di minimalismo degli ambienti e di massimalismo nella costruzione e distruzione dei corpi, di primissimi piani e dettagli coadiuvati da un sonoro registrato in ASMR, che si alternano a campi lunghi abbelliti da un uso del fish eye, restituendo un inevitabile senso di claustrofobia. Tantissimi silenzi durante la prima parte, dove la meravigliosa regia di Coralie Fargeat esalta ancor di più la meravigliosa prova di Demi Moore, che ci auguriamo venga quantomeno candidata agli Oscar, e di rumori assordanti. Un’interpretazione meravigliosa e autentica per un tipo di cinema sempre più raro, un cinema sensoriale e viscerale dal quale è impossibile fuggire.