La protagonista, Perempuan, si fa coinvolgere da questa nuova legge che tuttavia presto appare assumere i connotati di una religione. I “fedeli” puniscono severamente chi trasgredisce, e la completa inversione dello schema dell’ingiustizia decisa dalla struttura e dal funzionamento della torre non porta risultati migliori.
La dura vita della prigione, la violenza, i rancori, l’atmosfera asfissiante o anche semplicemente la fame presto finiscono con l’esasperare la situazione, con conseguenze prevedibilmente atroci. Ma il film non si concentra tanto sulla violenza quanto sulla riflessione filosofica alla base di quel che avviene. Il classico dilemma della nostra civiltà: come ottenere la libertà assoluta, per tutti, in modo che nessuno subisca?
C’è salvezza per l’umanità?
Risposta: non si può. Il sistema iniziale della torre ovviamente non ne assicura alcuna; ma quello imposto dalla nuova “legge”, con la sua impostazione radicale pseudo-religiosa, fa se possibile anche peggio. Cosa rimane da fare, quindi? Il quesito si pone a Perempuan, dopo diverse traumatiche esperienze, nella forma di una eterna ricerca esistenziale che è prima e soprattutto umana.
E ne emerge che la volontà di sopravvivenza dell’individuo, la persona prima del collettivo, hanno e avranno sempre la precedenza. Ma sarà e deve per forza essere sempre così? In fondo la società non esisterebbe senza forme di solidarietà. Il film cerca le risposte, tra scene cruente e spazi claustrofobici, in un altro thriller forte e impegnato che, grottescamente, parla al cervello attraverso “la pancia”.