Le iene (1992) di Quentin Tarantino. Specularmente ai suoi predecessori in questo elenco, Tarantino cambia le regole del cinema col suo film d’esordio, impone finti tempi morti traendo dagli stessi l’essenza del cinema, gioca con la violenza come prima nessuno, si dimostra ruvido e lirico nello stesso momento. Storia di una rapina andata male che non si vede e dei suoi autori che finiranno per ammazzarsi a vicenda nelle ore che seguiranno alla stessa.
Lo stile rigoroso e preciso di un cineasta allora ventinovenne cresciuto a pane e cinema, che esordisce a basso budget e con un impianto dichiaratamente teatrale (come lo sarà “The Hateful Eight”, che con “Le iene” condivide molto più di quanto non si pensi). L’approccio è revisionista (con Tarantino nasce ufficialmente il cinema cosiddetto post-moderno), la cinefilia di cui si nutre è insaziabile, la narrazione frammentata già un chiaro segno distintivo.
Tante sono le fonti di ispirazione (da “City on Fire” di Ringo Lam del 1987 alla nouvelle vague più in generale) quante le imitazioni che non hanno saputo ovviamente replicarne il genio. Grottesco e sopra le righe come i memorabili dialoghi che intavola, “Le iene” è un film che sia il tempo sia i successi venturi finanche maggiori – in termini qualitativi – del regista (su tutti “Pulp Fiction”) non hanno scalfito: a distanza di decenni la voglia di rivederlo e venerarlo costantemente permane.
Le ali della libertà (1994) di Frank Darabont. Non un film che sposta l’assicella del cinema o che inventi nulla. Ma deve per forza essere seminale un film che si consideri un capolavoro? Deve per forza cambiare qualcosa? Scombinare le carte o aprire una breccia nella Settima Arte? Siamo convinti che ci siano film, come questo, da amare totalmente col cuore.
Ancora oggi al centro di sondaggi che lo reputano come uno dei migliori film degli ultimi decenni, “Le ali della libertà” narra la storia – già al centro del bellissimo racconto di Stephen King “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank” – di un uomo processato per omicidio nel Maine del 1947 che una volta in prigione farà amicizia con un ergastolano di colore e diventerà il consulente finanziario del direttore. Ma ci saranno molte sorprese ad attenderlo.
Liberiamoci dal sassolino: “Le ali della libertà” è senza dubbio il miglior film carcerario dagli anni ’80 ad oggi, forse il migliore mai tratto da Stephen King e uno dei più belli degli anni ’90. Avvincente come pochissimi altri in questo sottogenere, consegna alla memoria i volti dei suoi attori protagonisti, Tim Robbins e Morgan Freeman in stato di grazia e nei ruoli più belli delle rispettive carriere. Frank Darabont, nella sua – purtroppo – ancora parca carriera cinematografica, non avrebbe sbagliato un colpo.
American Beauty (1999) di Sam Mendes. Una rappresentazione della middle class americana che nessuno sarebbe più riuscito ad eguagliare. Un film straordinario per eleganza formale e pudore, diretto da un Mendes già ferrato in campo teatrale.
Lester Burnham ha un lavoro che detesta, una moglie frustrata e una figlia bisbetica e insofferente. Ma un giorno, dopo aver conosciuto occasionalmente Angela, amica adolescente della figlia, rimane folgorato dalla sua bellezza e ritrova – complici anche altre rilevanti vicissitudini – la voglia di vivere. Ecco allora che la realtà si fa trascendente, aprendosi a squarci onirici atti a sublimare desideri repressi, implosi, segreti.
“American Beauty” è ancora oggi il miglior film di Sam Mendes, un incontro illuminato tra cinema d’autore ed esigenze di mercato. Per quello che può valere, è l’unico di questa lista ad essersi portato a casa la statuetta per il Miglior Film (oltre a quella per la regia, attore protagonista, fotografia e sceneggiatura originale). Film amaro e impietoso (soprattutto per quello che concerne il finale), vagamente noir, di una delicatezza soave, mai dimostrativa.
Finisce, per l’universalità dei suoi assunti, per riguardare chiunque, non certo solamente una specifica categoria sociale, geografica o anagrafica. Oltre a Spacey, qui alla sua prova migliore, tutto il cast è sublime e perfetto, inclusa una Mena Suvari lanciata nell’immaginario – erotico e non – collettivo e poi pressoché sparita nel nulla.
Il figlio di Saul (2015) di Laszlo Nemes.Capolavoro dalla messinscena totalmente innovativa, attanagliante e claustrofobico, che riesce nel miracoloso intento – dopo troppi reiterativi film a tema che l’industria del cinema dà alla luce con costanza regolare – di raccontare l’Olocausto sotto un diverso, completamente inedito punto di vista. Auschwitz, 1944. Saul Auslander è un prigioniero incaricato di bruciare i corpi, che un giorno scopre il cadavere di un bambino che crede suo figlio. Suo scopo sarà quello di trovare un rabbino che gli dia degna sepoltura.
Nemes precipita lo spettatore all’inferno, rimanendo appiccicato al volto e alla testa del suo protagonista ed escludendo così la quasi totalità del campo visivo circostante, del quale scorgiamo pochi ma rilevanti dettagli. Dettagli che in buona parte sono peraltro fuori fuoco, spesso suggeriti più a livello sonoro che prettamente visuale, andando così a rafforzare la potenza dell’impatto sullo spettatore.
È un film durissimo, “Il figlio di Saul”, un incubo perenne e una vera e propria esperienza sensoriale, se possibile ancora più estrema e intensa di quella messa in scena da Jonathan Glazercon “La zona d’interesse” (con cui condivide l’approccio sperimentale). Dispiace solo che Nemes negli ultimi dieci anni circa abbia fatto solo due (bellissimi) film.
Rei di aver tralasciato esordi magari altrettanto validi (si pensi tanto a “Ossessione” di Luchino Visconti quanto, negli ultimi anni, a “Hereditary” di Ari Aster), ci siamo limitati a mettere sul piedistallo quello che hanno avuto un consolidato e indubbio plauso di critica e pubblico senza riserve, lasciando un’impronta indelebile nella grammatica e nel linguaggio cinematografici. Augurandoci che non passino troppi anni prima di vederne un altro… che la lista continui!