I quattrocento colpi (1959) di Francois Truffaut, paradigma per qualunque altro film che da lì in avanti si sarebbe proposto di trattare l’infanzia, nelle sue manifestazioni più dolci e dolenti. Tutta la filmografia di Truffaut è più o meno direttamente correlata a questo film, tanto è vero che troveremo il protagonista Antoine Doinel in altre tre pellicole di un ciclo concettuale composto da: “Baci rubati”, “Non drammatizziamo… è solo questione di corna” e “L’amore fugge”.
Nel suo stile libero, che sembra rifuggire le forme del cinema classico, si possono già intravedere barlumi della nouvelle vague consacrata l’anno successivo da Jean-Luc Godard con “Fino all’ultimo respiro”. A suo modo un film dal futuro, un inno alla giovinezza che rifugge qualsiasi stereotipo nel descrivere l’infanzia, ma anche una critica non priva di una vena sottilmente anarchica nei confronti delle istituzioni educative.
La famiglia e la scuola sono parimenti assenti e distaccate, del tutto incapaci di comprendere e in questo si possono vedere bagliori di una contemporaneità politica e culturale agitata, già inquieta e pronta a deflagrare nei movimenti che avrebbero sconquassato gli anni sessanta venturi.
Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard, che apre le porte alla nouvelle vague e a una concezione tutta nuova del cinema e del mondo. Storia di Michel, giovane uomo sposato la cui refrattarietà alla regole lo fa presto diventare un fuorilegge. Troverà rifugio tra le braccia di Patricia, ragazza americana con la quale inizierà una storia.
Breccia dirompente nella modernità, “À bout de souffle” rimane una colonna portante, un film quasi fuori dal tempo, studiatissimo nelle scuole di cinema di tutto il mondo, nonché vero e proprio manifesto di una corrente che il cineasta avrebbe perpetuato e nutrito con capolavori non inferiori e seminali di questo (“Questa è la mia vita”, “Bande à part”, “Il bandito delle 11”, “La cinese”, solo per citarne alcuni). Lo sguardo è al noir classico, ma l’approccio scardina i luoghi comuni non solo del genere ma del cinema tutto.
Per fare un paio di esempi, la continuità del montaggio e della narrazione vengono infranti e i personaggi spesso guardano dritto in macchina interloquendo direttamente con lo spettatore. Girato tra le vie parigine in soli sessanta giorni e con un budget ristretto, “Fino all’ultimo respiro” è stato produttivamente concepito giorno dopo giorno, nell’ottica di una libertà realizzativa senza precedenti, con ampio spazio all’improvvisazione degli attori. A proposito di questi, il film ebbe inoltre il merito di lanciare Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg come star internazionali.
La notte dei morti viventi (1968) di George A. Romero. Uno degli horror più belli di sempre, più impressionanti, più spiazzanti per l’audacia aggressiva della messinscena e per il messaggio politico. Barbra e suo fratello Johnny si recano in una zona rurale della Pennsylvania per fare visita alla tomba del padre, quando vengono assaliti da un gruppo di morti viventi che costringeranno la ragazza – assieme ad un altro gruppo di superstiti – a barricarsi in una casa limitrofa cercando di sopravvivere.
Prescindendo da pochi e mediamente significativi precedenti (“L’isola degli zombies” del 1932, “Ho camminato con uno zombie” del 1943 e “La lunga notte dell’orrore” del 1966), Romero porta definitivamente lo zombi nel cinema, nella cultura popolare e nell’immaginario collettivo. Il budget microscopico e la ruvidità espressiva sono tipici dell’approccio produttivo dei B movies, ma Romero arriva a sconquassare le coscienze di un’America turbata dalla guerra nel Vietnam e da un razzismo interiorizzato rendendo il proprio racconto un resoconto del rimosso di una nazione allo sbaraglio.
Lo stile allucinato e la violenza gore esibita hanno contribuito tra le altre cose a farne un capolavoro del genere e non solo. Primo di un filone concettuale che il regista avrebbe portato avanti con risultati raramente meno che straordinari.
La rabbia giovane (1973) di Terrence Malick.Forse il film più impervio, perturbante, poetico e inafferrabile degli anni ’70 (paragonabile, in questo senso, solo a “Picnic ad Hanging Rock”), ragiona sul decennio allora in corso come fosse già avanti quarant’anni. South Dakota, 1959. Holly è una ragazza introversa, inquieta e taciturna, Kit un giovane scapestrato e irruento. Quando il padre della ragazza cerca di impedire la loro relazione, Kit lo uccide e fugge insieme a lei. Ma sarà solo il primo dei cadaveri che i due si lasceranno alle spalle.
Un capolavoro che usa il cinema per resuscitare l’iconografia mortifera di un paese allo sbando, crogiolandosi nella mitizzazione di archetipi cinematografici e culturali (Kit come James Dean) ma allo stesso tempo celebrandone la morte. Ed è una morte dolcissima, languida, adagiata sulle note soffici e incantate di Carl Orff, al cospetto della quale la natura rimane una silenziosa, magnifica osservatrice come continuerà ad avvenire con costanza della filmografia del cineasta texano.
Il road movie più insolito della Storia del Cinema, portavoce di un malessere esistenziale radicato nel proprio tempo ma nello stesso momento universale, è quindi anche un anticipatore per tutti i capolavori malickiani venturi e ha inventato uno stile ancora oggi imitato e ambito.
La casa (1981) di Sam Raimi, che appena ventunenne e nei ritagli di tempogira con un gruppo di amici uno dei massimi capolavori dell’horror moderno, modello al quale paragonare tutti gli horror futuri o quasi. Il canovaccio è diventato col tempo esso stesso archetipico: un gruppo di ragazzi va in un cottage sperduto nei boschi per il weekend e nella cantina di questo trovano un libro e un registratore. Facendo partire quest’ultimo, la voce di un archeologo pronuncia un formula che risveglierà un male atavico.
Sfrontatezza splatter, ironia e vigore visionario ne fanno un’opera dirompente. Raimi dimostra fin da giovanissimo un talento a dir poco acuto: la sua è una regia energica, nervosa, fatta di zoom e carrellate, movimenti convulsi e frenetici. Se plot e ambientazione sono diventati proverbiali nel genere, nessun altro horror a tema ha saputo dimostrare una tale sintesi concettuale (personaggi e psicologie ridotte al minimo, sottotrame inesistensi: c’è solo l’horror, l’effetto, la tensione insostenibile), un così originale approccio macabro e gore.
Primo di una serie interminabile di quasi tutti titoli apocrifi, ma Raimi avrebbe dato luogo a due sequel autentici straordinari, seppure realizzati in condizioni produttive molto più agevolate.