Quali sono i migliori esordi alla regia nella Storia del Cinema? Corrispondono con alcuni dei capolavori più grandi di sempre!
Cos’è un esordio? Un atto di coraggio, un mostrarsi e dimostrare. È, aulicamente parlando, il (primo, a volte anche ultimo) tentativo di lasciare qualcosa del proprio passaggio su questa Terra. Se questo vale per qualsiasi ramo dell’arte, facciamo un balzo dagli albori della creazione artistica al settore cinematografico nel 2024, dove chiunque può prendere in mano una telecamera ed esordire previo racimolo di un gruzzolo sufficientemente consistente da farsi chiamare budget.
Ma che fosse spalleggiato da una major o del tutto indipendente (il discorso sul rapporto tra artista e istituzione richiederebbe pagine e pagine per venire approfondito e analizzato nelle sue radicali mutazioni dagli inizi del cinema ai giorni nostri), va accordato all’esordiente il plauso anche solo per essere arrivato all’industria cinematografica e aver detto la propria.
Un sogno difficile, duro a realizzarsi, indubbiamente per pochissimi, nonostante – come dicevamo prima – la disponibilità dei mezzi e il facile accesso alla tecnologia che concernono i giorni nostri. Consapevoli di questo, andiamo allora a spulciare nel corso della Storia del Cinema quelli che abbastanza unanimemente sono considerati i migliori esordi alla regia di sempre.
Quarto potete (1941) di Orson Welles, che a soli venticinque anni realizza un pilastro del cinema di portata colossale, ancora oggi spiazzante per la quantità e audacia di invenzioni cinematografiche messe in campo. Dopo la morte del magnate Kane, un giornalista (Cotten) indaga sulla sua vita e il film diventa così un allucinato, straniante e titanico resoconto della stessa. Un film concettualmente già maturo nonostante il fervore sperimentale tipico delle opere prime e anzi paradossalmente quasi senile, per questo forse l’esordio più curioso di tutta questa lista.
Welles inventa la profondità di campo, frammenta la narrazione in senso funzionale all’indagine psicologica come nessuno prima (il film inizia con un falso cinegiornale e procede secondo molteplici punti di vista, novità stilistiche per l’epoca folgoranti), regala alla Storia l’oggetto cinematografico più affascinante e simbolico di sempre: Rosebud. Tracce del barocchismo di Welles le avremmo poi ritrovate con ricorrenza nella filmografia del regista, particolarmente in capolavori quali “L’infernale Quinlan” e – soprattutto – “Rapporto confidenziale”.
Welles si garantì l’ultima parola sul montaggio finale e la totale libertà in tutte le fasi di realizzazione, condizioni che non riuscì mai più a ottenere in una carriera che sarebbe stata una lotta continua ed estenuante con le case produttrici cinematografiche.
Il mistero del falco (1941) di John Huston, altro gigante della Settima Arte che con questo film inventa il noir cinematografico e consacra Humphrey Bogart, che nel film interpreta l’investigatore privato Sam Spade incaricato di cercare un’antica e ambita statuetta di enorme valore. L’attore sarebbe poi comparso in altri illustri esempi del genere (tra i migliori citiamo “Il grande sonno”, “Solo chi cade può risorgere” o “L’isola di corallo” dello stesso Huston), ma la quintessenzialità de “Il mistero del falco” è irripetibile, frutto di un’asciuttezza espressiva ancora una volta tipiche di uno sguardo maturo, oseremmo dire navigato, piuttosto che riconducibili a un esordio.
Realizzato esclusivamente in interni volti ad accentuarne l’aspetto claustrofobico “Il mistero del falco” tra le altre cose fa uso della tecnica di ripresa – per l’epoca innovativa e da lì in avanti abusatissima – del dutch angle, ovvero una marcata inclinazione laterale della macchina da presa, in modo che l’immagine risulti in diagonale. Una tecnica volta a suggerire una resa visiva straniante, in perfetta sintonia con le atmosfere del noir. Tratto dal celebre romanzo di Dashiell Hammett, è ancora oggi un esempio di eleganza formale insuperabile.
La parola ai giurati (1956)di Sidney Lumet. Un capolavoro di regia (e dire che il film è ambientato quasi interamente in un’unica stanza) e di tensione drammatica. Dodici giurati (i “12 Angry Men” del titolo originale) devono decidere la sorte di un giovane accusato di omicidio e per questo condannato a morte. Undici di loro lo ritengono colpevole. Starà al protagonista riuscire a convincerli uno ad uno della sua innocenza. Ancora oggi, tra i tantissimi film da lui diretti, è insieme a “Serpico” e “Quel pomeriggio di un giorno da cani” il suo più amato e ricordato.
Un paradigma per qualsiasi altro film, prescindendo dal teatro o meno, si sia successivamente basato sul vigore della parola e sull’unità spazio-temporale come motori drammatici. Complice anche e soprattutto un cast in stato di grazia, capitanato da un Henry Fonda formidabile.
La sceneggiatura è un adattamento dell’omonimo dramma teatrale di Reginald Rose, ma non c’è niente nel film di Lumet che risenta della staticità del teatro. Il regista anzi utilizza varie tecniche per conferire spessore e dinamicità al racconto: la macchina da presa, inizialmente distante dai personaggi, restringe l’inquadratura mano a mano che il film procede, concedendoci solo progressivamente dei primi piani.