Trent’anni: un compleanno funebre, bagnato da una pioggia che non può durare per sempre. Usciva nel 1994 Il corvo di Alex Proyas. Nasce un mito, ne muore contemporaneamente un altro: Brandon Lee, figlio a propria volta di quella leggenda che fu Bruce Lee. Un mito, quello di Brandon, che è tale proprio in virtù de “Il Corvo”. Ah, il cinema è pieno di questi vertiginosi corto-circuiti! Quelli che hanno fatto nascere la famigerata etichetta di “film maledetto”, dei quali la Storia del Cinema è piena dagli albori.
Non ci sentiamo in colpa nell’affermare che il mito di Brandon Lee sia nato solo col film in questione, perché se è vero che l’attore ha avuto suo malgrado una brevissima carriera (quando è morto aveva solo ventotto anni), gli altri titoli che la compongono sono del tutto trascurabili (“Resa dei conti a Little Tokyo” e “Drago d’acciaio” entusiasmeranno proprio solo i fan più incalliti).
Eppure, quando si parla di questo cult, nessuno menziona mai il regista Alex Proyas e i suoi meriti. Per quanto a onor del vero questi non vadano troppo oltre il film di cui parliamo, è giusto tracciare una linea tra “Il Corvo” e il suo successivo straordinario “Dark City”, oggi colpevolmente dimenticato.
Il filo conduttore è l’immaginario metropolitano, la città dai connotati noir portati all’esasperazione, inghiottita in una notte eterna dai contorni horror-espressionisti. Il regista poi avrebbe diretto due chicche quali “Io, Robot” e “Segnali dal futuro”, salvo rovinarsi con quel disastro di “Gods of Egypt”, ad oggi il suo ultimo film.
Ma torniamo a noi, al corvo e alla città, che la macchina da presa sorvola (alla lettera, adottando la soggettiva del volatile) calandosi nelle sue vie oscure fatte di rifiuti e degrado. La città è protagonista, partorisce un fauna di villain che ne sono la prosecuzione, passa da una morfologia contemporanea a una marcatamente gotica, su stupenda soundtrack per l’appunto gothic, metal e simili.
Impregnato di un romanticismo dolente del quale si sarebbe perduto lo stampo già nel cinema dell’immediato nuovo millennio, “Il Corvo” rinnova la propria bellezza ad ogni visione (frequenti e fortunati sono i passaggi in tv). Lo stesso non si può dire dei suoi sequel, quantomeno non da un punto di vista di ricezione di pubblico e critica.
“Il Corvo 2” (1996, di Tim Pope) sostituisce a Brandon Lee un efficace Vincent Pérez ed esaspera gli aspetti pop dello scenario dark, che stavolta è quello di Los Angeles (laddove il primo era ambientato a Detroit). Iggy Pop tra i cattivi è un bijou, il film in sé divertente. Lo è già meno il terzo (“Il Corvo 3 – Salvation”, 2000, di Bharat Nalluri), con un Eric Mabius bravo ma anonimo e un approccio fortemente realistico a riportare a terra quello che prima era un immaginario lirico. Comunque, in sé e nel suo piccolo è del tutto apprezzabile.
Indifendibile invece il quarto (“Il corvo – Preghiera maledetta”, 2005, di Lance Mungia), quasi esclusivamente per colpa della più esecrabile scelta di casting del nuovo millennio: Edward Furlong (“Terminator 2”, “American History X”, ve lo ricordate?) trasandato e sovrappeso è oltre il trash. Se pensate che Bill Skarsgårdnel recentissimo remake sia inappropriato, considerate a cosa si è arrivati in passato!
Ma al di là del cast e dell’ispirazione visionaria in sé, quello che manca agli altri sequel è un dolore autentico, la sofferenza che si porta appresso per tutta la sua durata. Basato sull’omonimo fumetto di James O’Barr, un film torbido come raramente capita nel cinema mainstream, cantore di una tra le vendette più affascinanti e coinvolgenti (nel senso stretto della parola, perché la rabbia e il furore di Eric Draven diventano prestissimo le nostre) di sempre.
Se il remake di Rupert Sanders (“Biancaneve e il cacciatore”, “Ghost in the Shell”), stroncatissimo già prima dell’uscita vera e propria nelle sale, riuscirà ad essere anche solo la metà di quello che è stato il capostipite, potremo considerarci soddisfatti.