Perché Slevin è uno dei migliori noir di questo secolo

Uscito nel 2006, "Slevin" rimane a distanza di vent’anni un film formidabile, invecchiato bene come pochissimi altri usciti negli stessi anni.

Slevin
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A distanza di quasi vent’anni, Slevin – Patto criminale rimane un noir imprescindibile, tra i migliori esempi del genere che il cinema del nuovo millennio abbia visto.

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La recente uscita di “Trap” ha riportato all’attenzione Josh Hartnett, attore versatile e talentuoso (lo abbiamo trovato in war movies memorabili come “Black Hawk Down” e “Pearl Harbor”, in commediole da teenager come “40 giorni & 40 notti” o in horror inaspettati quale il dimenticato “30 giorni di buio”, solo per citarne alcuni) che ricordiamo soprattutto in uno dei noir migliori di questo secolo, ovvero “Slevin – Patto criminale”. Uscito nel 2006, rimane a distanza di vent’anni un film formidabile, invecchiato bene come pochissimi film di quel genere usciti negli stessi anni.

Ma di che genere stiamo parlando? Un incrocio a rotta di collo tra noir e commedia, combo già di per sé rischiosa (quanti film nella Storia del Cinema sono riusciti nella commistione?), ma che Paul McGuigan (già autore del cult britannico “Gangster n°1”, ben più serioso) riesce a gestire mirabilmente.

Hartnett domina la scena e le tante sfumature di un personaggio che riserva molte sorprese, ma è attorniato da un cast a dir poco irripetibile: Bruce Willis killer sofisticato e granitico che sembra provenire da “The Jackal”, Lucy Liu nei suoi anni d’oro e in inedita versione romanticizzante, Morgan Freeman con la solita insuperabile aurea da boss, Ben Kinsgley che non ha mai smesso di rifare sé stesso e per questo – o nonostante questo – ci piace, Stanley Tucci finto sornione e quella vecchia volpe di Robert Forster (seppure in un ruolo minore) sono le figure indimenticabili di un universo criminale dal raro fascino.

Il merito maggiore della sceneggiatura è quello di scivolare con una naturalezza e nonchalance uniche tra altisonanti umori e registri. La cupa violenza dell’incipit è subito stemperata dal comico (la Mossa alla Kansas City), passando poi per momenti da rom com tra Hartnett e la Liu, fino a un intrigo complesso ma appassionante degno dei migliori epigoni del genere.

Sembra Tarantino? Lungi dal fargliene una colpa diciamo: certo! Lo richiama nella rivisitazione pop di un cinema lontano decenni, nel suo essere così sopra le righe da sfiorare la caricatura, come se provenisse da una graphic novel.

Del noir classico “Slevin” recupera sapientemente la frammentazione del racconto, che come da tradizione è scomposto e ri-accorpato, subisce scarti e deviazioni, ellissi e successivi riempimenti volutamente tardivi. Il fine ultimo è un funzionale disorientamento spettatoriale, volto a favorire l’immedesimazione in un mondo dominato da un caos corruttivo.

Rispetto ai capisaldi che hanno dettato le regole del genere, “Slevin” esaspera la propria natura giocosa, sul crine del surreale, come una beffa cerebrale e scatologica stipata all’inverosimile, in costante bilico tra eccesso e armonia. È la velocità a inglobare tutto, una rapidità votata all’accumulo e figlia del mondo dei videoclip; senza che però gli aspetti deleteri di quest’estetica fagocitino il cinema.

McGuigan non sarebbe più riuscito a raggiungere simili livelli, il genere neppure, o quantomeno non in un’ottica di fuoriuscita dai binari del genere spurio. La scorrevolezza e la sfrontatezza di scrittura propri di “Slevin” sono identificativi del modo di fare cinema di un decennio, il primo del nuovo millennio. Nessuno però come “Slevin”, forse nemmeno il miglior Guy Ritchie.