Alien: un franchise misterioso lungo 45 anni

Alien Romulus è il settimo film della saga iniziata nel '79 con Scott: ripercorriamo tutte le tappe, dal punto di vista narrativo, cronologico e critico.

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Tanti registi per un alieno

Nel 1979, il cinema cambia per sempre.

Certo, è solo una delle tante date che funziona come punto di svolta: ma nel 1979 Alien, di Ridley Scott, rivoluziona non soltanto la fantascienza, ma anche l’immaginario horror grazie all’alieno visivamente creato da Hans Ruedi Giger.

E H. R. Giger lo ha fatto proprio tramite le sue visioni: non è un modo di dire. Perchè l’artista di Coira aveva sofferto a lungo di pavor nocturnis, un disturbo del sonno che provoca paura e sogni spaventosi nel corso della prima fase r.e.m., e rese concrete dal lavoro di Carlo Rambaldi, che animò la prima creatura della saga facendola diventare simile a un enorme insetto che si muove in modo meccanico, a scatti. È in effetti soprattutto il movimento di quel mostro, a trasformare la semplice inquietudine in paura, il disgusto in un senso di minaccia. Mentre la meraviglia rimane, come il fascino.

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Insomma, Alien è uno di quei film capostipite che è impossibile dimenticare o non conoscere, e da cui è normale germinino poi sequel, prequel e midquel: ma la cosa interessante da notare adesso è che questo è uno di quei franchise che nonostante ancora dopo 45 anni sia vivo e vegeto, non ha mai smesso di avere una coerenza interna alla saga o al racconto né (tralasciando i due apocrifi Alien VS Predator e seguito, tecnicamente, facenti parte dell’altro franchise) di non scendere mai sotto al livello di guardia, generando opere di tutto rispetto quando non capolavori.

Certo, va detto che tutti i registi che hanno affrontato la Creatura non passavano lì per caso: dopo Scott, ci sono stati James Cameron (Titanic, Avatar, Terminator), Jean-Pierre Jeunet (Delicatessen, Il Favoloso Mondo di Amelie), David Fincher (Se7en, The Social Network), Fede Alvarez (La Casa, Man in the Dark), e ognuno ha messo e lasciato qualcosa di sé.

Alien, insomma, è un esempio perfetto di high concept hollywoodiano, un’idea semplice quanto, appunto, altissima, che può essere «scomposta, serializzata, reinventata, cambiata di contesto narrativo e ricollocata laddove le esigenze del mercato la vogliono»

Non va sottovalutata, nel caso dell’alieno, la part grafica-visuale.

Perché Giger e Rambaldi hanno creato una perfetta forma di vita affascinante e repulsiva insieme per una serie di dettagli che la sessualizzano e la rendono così attraente: non da ultimo, la mancanza di occhi o bulbi oculari antropomorfi contribuisce ad aumentare una delle caratteristiche vincenti che forse lo stesso Scott sottovaluta, ovvero l’aura di insondabile mistero.

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Una ferocia ferina scaturita dalle profondità dello spazio che rendeva gli Xenomorfi allo stesso tempo temibili avversari e ambito oggetto di studio (non ultimo, dalla Compagnia Weyland Yutani). Raccontare le origini era un azzardo, e non sappiamo quanto Scott, nel progettare i due prequel Covenant e Prometheus, se ne sia reso conto: anche se, a onor del vero, va riconosciuto ai due film di affrontare tematiche specifiche, importanti e divisive che partono dagli alieni ma finiscono all’essere umano. È per questo che i due film prequel si sono in qualche modo liberati dai legami con gli altri capitoli della saga e si sono concentrati su una concezione più metafisica dell’universo narrativo, lambendo argomenti come il rapporto con il divino e la ricerca delle risposte alla condizione umana. Prometheus (e in misura minore Covenant) fonda la propria dinamica sul concetto di creazione, proseguendo con la ricerca della forzata procreazione

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Tanto tempo fa, in una galassia lontana… (Alien e Aliens)

Il futuro di Ridley Scott non ha la silenziosa solennità del Kubrik di 2001, né la malinconia livida di pioggia del venturo Blade Runner; Alien è atipico, perché devasta da dentro. Una fantascienza che si mescola indissolubilmente con l’orrore, una storia che riesce a scavare nelle recondite pieghe dell’anima.

Al di là del fatto che la Ripley di Sigourney Weaver fu la vera, inimitabile ed unica madre/matrice di tutte le bad girls, la Nostromo è quasi un essere vivente, i suoi corridoi stretti e bassi sono le vene, le arterie, il luogo dove l’infezione, l’alieno, è libera di scorrazzare infettando e uccidendo. Alien spiazzò e ammaliò, perché la nuova fantascienza che offriva era lo spazio immenso che si apre nel buio dentro noi stessi: fu infatti uno dei primi episodi di sci-fi al cinema che pur ambientato nello spazio, aveva un’azione che si svolgeva quasi esclusivamente dentro.

Dentro. L’alieno è il Male che viene da dentro, l’alieno risveglia il Male e le paure archetipali che abbiamo dentro. Il mostro sublime, terrificante (non ha gli occhi: non sai mai dove guarda) e bellissimo, disegnato dal genio spaventoso di H. Geiger (che ebbe a dire una volta “prendo l’oppio per sfuggire alle mie visioni. Nascono dal mio cervello: è questo che mi fa più paura”), ha forma fallica, oltretutto (l’uovo da cui nasce, il primo, fu censurato perché troppo simile al sesso femminile); il facehugger insemina l’uomo, il chersbuster nasce come in un parto cesareo uscendo dal ventre. E sinuoso, ipnotico e morboso si insinua sottopelle come l’orrore che da quarantacinque anni non ci lascia più.

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Neanche su grande schermo, mentre di volta in volta la sua complessità sembra aumentare.

È stato poi James Cameron, nel 1986, a far scivolare la viscida, scivolosa sessualità malata del mostro verso un significato più politico.

Il sequel del film di Scott era atteso in maniera febbrile.

Nell’epoca di Reagan (Nightmare), delle guerre stellari, degli hard body (Rambo e Terminator), la proliferazione esponenziale dà conto di un modo in cui il “di più” rappresenta il precetto base di vita. Aliens – Scontro Finale è uno dei prodotti hollywoodiani più concreti per comprendere l’ideologia di un’era irripetibile, pur non essendo un film guerrafondaio, ma un principio assoluto che ha determinato, modulato e mosso lo sguardo di un’industria e di una società sulle immagini. Certo, nel film c’era anche Ripley e il suo impulso materno verso la sopravvissuta che riprende la metafora sessual-biologica della Creatura contro i corpi maschili e maschilizzati e maschilisti (l’uovo-vagina dell’alieno / la testa fallica dell’alieno), ma resta il fatto che Aliens – Scontro Finale ha oggi più che mai un’ineccepibile pertinenza storica. Perché a ben guardare si pongono qui le basi per lo sguardo femminile che cerca di superare le distinzioni di genere conducendo nello stesso tempo la donna ad uno stato atavico

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Un mostro, due mostri, mille mostri (Alien³ e Aliens Resurrection)

Come detto sopra, gli autori che hanno messo mano sullo Xenomorfo hanno inevitabilmente lasciato il loro segno, sovrapponendo perfettamente alla Creatura la loro visione e le lor ossessioni.

Che nel caso di David Fincher erano particolarmente calzanti alla metafora sessuale del film capostipite: i luoghi del suo cinema (che sia un’astronave, una città, una casa) sono tutti immaginati da lui come dei corpi dove si annida il cancro, malattia simbolo della degenerazione sociale capitalistica.  

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Allora Fincher con Alien affonda le mani e lo sguardo nella vischiosità cancerosa della minaccia aliena, nelle fattezze del granchio con la metafora e ancora di più la forma del parassita del cancro (l’etimo di cancro e proprio granchio). Intanto, il terzo episodio -prodotto- della saga, il più sperimentale visivamente, esplicita il rapporto sessuale fra Ripley e l’alieno che si palesa in una maternità della donna, inseminata durante l’ennesimo sonno criogenico in cui era finita alla fine di Aliens. Ma ormai la metafora sessuale è chiara: la mano di Fincher è forse poco adatta a quest’odissea spaziale, che infatti assume le sembianze poco consone di un thriller spaziale. La director’s cut di Alien³ (sarebbe al cubo) originale mostra però un’opera ben diversa da quella poi arrivato in sala. Fincher crea un affresco insolito e malato per Fiorina 191: in una serie di intriganti rimandi al Dracula di Stoker, l’alieno viene imprigionato e poi liberato grazie ad un rapporto semi-ipnotico instaurato con alcuni folli.

A nulla serve, alla fine del film, gettarsi in una fornace: il tenente Ripley non può morire.

La firma del quarto capitolo è quella autorale di J.P. Jeunet: duecento anni dopo il suicidio di Ripley, nella base spaziale Auriga, dopo sette tentativi falliti, una squadra di scienziati della Compagnia (che assume un vero ruolo di co-protagonista della saga) ricostruisce il suo clone perfetto, da cui con un parto cesareo nasce la nuova Regina Aliena. Il mostro, e i mostri, che da lei nasceranno saranno carne della sua carne. Alien Resurrection è declinato al femminile: accanto alla sempre più sfumata, sempre più inquietante Sigourney Weaver, c’è l’adolescenziale Winona Ryder, altro corpo visivamente asessuato, e la Regina Madre. Il tema della maternità (nel primo capitolo non dimentichiamo che c’era il computer mother, in quello di Cameron Ripley fa da madre ad un’orfana, nel terzo lo stesso tenente era inseminata) diventa il fulcro dichiarato.

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Accanto a questo profilo, c’è anche la mutazione incontrovertibile del rapporto umano/alieno: non solo dal punto di vista biologico, ma anche culturale. L’incontro/scontro con l’altro diventa portavoce della contrapposizione etica, politica e religiosa cara al cinema di Jeunet.