Michael Light (Mark Wahlberg) è un adventure racer sempre a un passo dal successo ma mai vincitore, cosa dovuta in non poca parte al suo essere un pessimo leader. Sono passati tre anni dalla sua ultima gara e, non soddisfatto, decide di investire tutto quello che ha in un ultimo tentativo di arrivare finalmente alla vittoria…
Arthur the king: la recensione
Iniziamo dalle differenze tra il film e la realtà . Prima di tutto, gli eventi del film vengono spostati nella Repubblica Domenicana invece che in Ecuador, una scelta che anche i Trivia di Amazon Prime non sanno giustificare ma, tutto sommato, si tratta di posti intercambiabili dato che la cultura locale non influisce minimamente sulla storia. In secondo luogo, la storia del vero Arthur vede molto meno dramma personale: Lindnord è stato un atleta svedese di successo che non ha avuto bisogno di investire ogni centesimo dei suoi risparmi in un tentativo disperato di vincere una gara.
La narrazione finisce così per diventare elemento di distrazione, rendendo assai meno interessante quello che succede per il semplice fatto che non viene permesso conoscere il personaggio: tutto è già annunciato.
Il film decide di alzare la posta in gioco al fine di creare più dramma fino ai limiti del melodrammatico, ma rispetta così pedissequamente i tòpoi del genere che è impossibile non prevedere quello che sta per succedere. Non ci sono sorprese, non ci sono rivelazioni e, per essere un film che segue una “adventure race” (un percorso di resistenza che dura giorni in cui gli atleti devono marciare, scalare, usare biciclette e canoe) manca di adrenalina.
Il cuore del film è ovviamente Arthur, portato sullo schermo da un cane che recita molto meglio di tanti attori più blasonati. Le scene che funzionano di più sono appunto quelle di Arthur, la cui storia è sicuramente più interessante del dramma artefatto costruito intorno al personaggio di Michael che, in teoria, dovrebbe conferire al film qualcosa in più ma che poi rivela non avere alcuna conseguenza.
Il film sa quali tasti premere, sa esattamente come “manipolare” lo spettatore. E, in questo, riesce. In fondo, chi non ama un lieto fine, sopratutto quando ci sono animali coinvolti?
Il film è “competente”. La recitazione funziona, la regia funziona, la cinematografia è ok. Non c’è niente di sbagliato in Arthur, ma non c’è neanche niente di particolarmente notevole. Il regista Simon Cellan Jones ha già diretto Mark Wahlberg in “the Family Plan” film meno che mediocre e semplicemente dimenticabile e dirige con fare “scolastico”.
Si ha la sensazione che questo film sia solo una summa di altri film già visti, incapace di ritagliarsi una propria personalità . Non un pessimo film, non un grande film. E’ un film che esiste, che si lascia vedere grazie a un runtime tollerabile (che a tratti sembra comunque troppo lungo) ma che si dimentica man mano che si guarda. Apprezzo però il fatto che il lieto fine del protagonista sia non solo guadagnato, ma anche frutto della crescita personale del personaggio.
Nei titoli di coda il film dà il giusto tributo ad Arthur e Lindnord, mostrando le foto dei veri eventi e citando la Arthur Fondation, nata con l’obiettivo di supportare la LOBA (Ley Organica de Bienestar Animal) entrata in vigore nel 2018 e collabora ancora oggi con varie associazioni che si occupano di Welfare per gli animali.