Il cinema di Shyamalan tra la malattia e la famiglia

L'opera di Night Shyamalan è come i suoi film: piena di segni, citazioni, rivelazioni: scopriamo quali sono

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Il ritorno al successo: The Village e il completamento della trilogia con Split e Glass

The Visit ha una storia semplice, quella che si dice high concept, ovvero una trama riassumibile in poche parole: due ragazzini vanno a trovare i nonni dopo anni, ma troveranno qualcosa di inaspettato.

Da questo ground zero Shyamalan ha saputo ritrovarsi e ritrovare la sua ispirazione piu profonda: partendo quindi da un fasullo mockumentary però con una consapevolezza e un’intelligenza difficile da trovare nell’affollato sottogenere.

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La scelta vincente è quella di affidare le riprese ad una talentuosissima ma giovanissima regista, riuscendo nel duplice intento di matenere la freschezza necessaria al found footage e insieme di curare l’inquadratura con quel rigore impregnato di cultura e consapevolezza nello sguardo proprie dei grandi autori.

The Visit è pieno di “esche narrative”, se vogliamo identificarle così, con un accumulo di jump scare che riportano pienamente nei territori della Blum: senza dimenticare il famoso plot twist, atteso quanto le scene post credit nei film Marvel, che qui diventa piu strizzatina d’occhio ai vecchi amici che altro.

Pur inserendosi a pieno titolo nel filone dove vivono e prosperano Paranormal Activity, Insidious e Blair Witch Project, The Visit è shyamalaniano (forse qui piu come metalessi narrativa, ma sempre di alto risultato) nel rigore poetico fino a diventare un atto d’amore e passione verso il cinema, piu precisamente quello dell’orrore, con l’aggiunta di una salvifica ironia pressocchè inedita, che si prende gioco dei topoi tipici che non rinunciano a momenti di vero terrore.

Se con The Visit Shyamalan recupera il suo senso perduto per il cinema, insieme a quel fagotto bric-a-brac poetico dove tiene tutte le sue ossessioni, con il dittico successivo Split e Glass compie un’operazione meno sofisticata ma piu imponente, che lo riporta nelle zone alte degli incassi.

Split (2016) e Glass (2019) sono dichiaratamente il completamento di una supposta trilogia iniziata con Unbrekeable: se dal punto di vista narrativo è ovvio, da quello produttivo un pò meno.

Le traversie raccontate di una filmografia che dopo essere esplosa si era incendiata di senso ma poi anche bruciata e carbonizzata fanno pensare ad un reprise di un vecchio successo per consolidare la fama riafferrata con il precedente The Visit. Ma (se è vero) è un vezzo perdonabile, considerando che la dilogia ha uno spessore necessario e indiscutibile: soprattutto Glass, che è il padre di tutti i cinecomics, nobilitandone il genere e dettandone addirittura le regole emotive.

E se alcuni lo hanno paragonato a Watchmen sbagliano di grosso: perchè se il film di Snyder (e la serie di Lindelof, e il graphic novel di Moore) è la decostruzione del genere, qui invece Shyamalan compie l’operazione esattamente opposta, raccoglie gli indizi lasciati qua e là e si dimostra una volta di piu grande conoscitore dei fumetti e del mezzo, dirigendo la loro apoteosi in film, la loro agiografia.

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Split e Glass sono purissima mitopoiesi moderna: compiendo un’abilissima azione di retcon modernizza Unbrekeable e insieme celebra la Settima Arte con la sua natura, appunto, mitopoietica. Diventano conseguentemente un trattato sul supromismo nietscheiano aggiornato a Stan Lee e alla mitologia con superproblemi della Marvel.

Su tutto, sempre l’Immanenza. La volontà ferrea, ossessiva, di utilizzare il cinema per momstrare la verità, per sparare un flash di luce improvvisa su quella Verità che è nascosta proprio sotto i nostri occhi, per strappare e strattonare quel qualcosa di indecifrabile che si agita dietro l’angolo visivo del nostro sguardo.

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Nel 2019 di Glass sono passati esattamente vent’anni da quando un ragazzo indiano cinefilo e di belle speranze ha inventato letteralmente un nuovo modo di raccontare (e vedere) il Mistero: il mondo è cambiato e sono cambiati anche i media, ma non è cambiata la sua voglia di mettere a fuoco le immagini e gli indizi di quei disegni nascosti ma non troppo, ricostruendone i pixel per restituirne la potenza.

Il cinema di Shyamalan è adesso un solidissimo, potentissimo strumento intertestuale che fonde insieme la nuova serialità e i tradizionali modelli di narrazione per costruire un unico, immenso universo dove tutto è collegato a qualcos’altro, che sia il racconto o il testo stesso.

Vecchie paure: Old

Nell’estate del 2021 esce la regia n.14 di Night Shyamalan, Old: uno spiazzante e claustrofobico survivor esistenziale, che riflette ancora una volta sul concetto di orrore letto attraverso il Tempo.

Il titolo stesso fa riferimento ovviamente ad una componente della trama (delle famiglie ospiti di un resort di lusso si ritrovano in una spiaggia inaccessibile, sulla quale il tempo ha delle leggi tutte peculiari) ma echeggia un’asse dimensionle nella quale viviamo, il Tempo.

Nel lungo percorso di maturazione metacinematografica, una volta riconquistato il senso del cinema (The Visit), e riafferratane l’epicità (Glass), era il momento giusto per Shyamalan come autore per riflettere su sè stesso e sulla propria tecnica.

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(from left) Mid-Sized Sedan (Aaron Pierre), Prisca (Vicky Krieps), Guy (Gael García Bernal) and Chrystal (Abbey Lee) in Old, written for the screen and directed by M. Night Shyamalan.

In questo senso, Old è cinema purissimo, talmente consapevole di sè e della propria ricerca che scava nelle sue stesse immagini e in quelle sedimentate nell’immaginario collettivo per coronare la ricerca del suo demiurgo, che qui -per la prima volta (quasi) protagonista- decide di omaggiare il suo padre ideale Hitchcock clonandone un’immagine e riprendendo sè stesso dietro l’obiettivo come novello James Stewart, due osservatori di morte, due voyeur, due creatori di immagini a specchio.

La storia di Old viene da un graphic novel francese, Sandcastle: e Shyamalan stesso ci tiene a ribadire che non vuole smettere nè di creare immagini (attarverso il ruolo che si è ritagliato per sè stesso) nè di credere nella forza delle immagini per fermare il Tempo, il nemico numero uno.

Un cinema inteso con semplicità, puro, in maestoso equilibrio fra spettacolo e riflessione autoriale, che qui è adattamento di un racconto altrui ma segue subito territori propri, affrontando come sempre la follia, la malattia e la disfunzionlità familiare. In questo modo, Old si trasforma lentamente in una parabola sui nostri difetti di percezione, quelli che non ci permettono di decifrare gli indizi che punteggiano l’opaca insensatezza del reale.

Servant, la famiglia e la malattia

Tra il 2019 e il 2023 Shyamalan idea Servant, serial per Apple tv di cui curerà la supervisione e la regia di alcuni episodi.

Serial di incredibile eleganza, vede al centro del suo racconto e delle sue quattro stagioni una famiglia disfunzionale alle prese con la malattia. Che irrompe nella vita “normale” come una cameriera qualunque, una serva, un intruso pasoliniano che prende su di sé le ombre e le psicosi della famiglia e le restituisce frastagliate come un prisma.

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Tutti i registi che hanno seguito e preceduto Shyamalan dietro la macchina da presa degli episodi hanno saputo coerentemente tenere botta e mantenere saldo il timone del senso della serie: è per questo che Servant raggiunge vette incredibili di inquietudine e descrive come mai la paranoia, tutto mentre si mantiene stabilmente un prodotto raffinatissimo e di alto livello, evitando accuratamente i trabocchetti della lunga serialità grazie alla durata ridotta di ogni episodio.

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Che diventa un frammento di un puzzle più grande solo in apparenza: vedere la terza stagione non rende più comprensibile nulla, fa solo in modo che l’oscurità lambisca tutto e il buio divori ogni anima.

Trap, ovvero come intrappolare la tensione

A luglio 2024 esce Trap, sedicesima regia di Shyamalan dopo Bussano alla Porta del 2023.

Due film che hanno due funzioni ipertestuali: da una parte svincolano il regista indiano dall’obbligo del plot twist, quel marchio di fabbrica che lo aveva reso riconoscibile nel panorama cinematografico e che a lungo andare lo aveva costretto in una sorta di recinto; dall’altra, confermano l’eccellenza autoriale di Shyamalan, le sue felici intuizioni di scrittura, la sua intelligenza nell’ideare plot originali e suggestivi, ma soprattutto la sua maestria nel saper dosare gli ingredienti di ogni film fino a raggiungere un equilibrio perfetto.

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Lo chalet di Knockin’ at Door è la versione country dell’appartamento della casa protagonista di Servant: due luoghi che rimangono invariabilmente chiusi agli influssi esterni. Tutto quello che succede in casa resta in casa e proviene dalla casa: il fulcro del racconto rimane chiuso dentro, le camere, i corridoi, gli angoli sembrano prendere vita e cambiare a seconda dell’angolazione dalla quale si osserva, un pò come la verità sull’esistenza cambia sostanza e significato a seconda di quando e dove la si cerchi. Le uniche intrusioni esterne vengono dalla televisione e dalle immagini dello schermo.

Lo stesso schermo che rivelava la verità alla famiglia di Signs.

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In Trap, invece, tutto gira intorno e dentro ad uno stadio dove il protagonista, un credibile e incredibile Josh Hartnett, porta la figlia per farle vedere il concerto della sua cantante preferita. Anche qui, un luogo chiuso, una famiglia, un disagio -la malattia mentale di lui-: delle bolle nelle quali i personaggi si ritrovano chiusi senza possibilità di uscita, bolle all’interno delle quali si può solo provare a crearsi una propria realtà con i pochi elementi certi che si hanno a disposizione (se se ne hanno), studiando e sfidando i contorni labili della realtà che ci si costruisce da soli sperando che la nostra percezione non ci inganni.

In questo senso, quest’ultimo Trap è un film lucidissimo, un teorema scintillante all’interno di una filmografia densissima.

Un film che conferma un regista che immagina le sue storie in zone di sicurezza o conforto (villaggi, appartamenti, spiagge, case nel bosco…) dove cercare riparo dal mondo esterno dove si annida la vita piena di rischi e pericoli, ma anche dove è nascosto, intriso, il senso delle cose annunciato da profezie, immagini, epifanie, flash improvvisi.

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In questo senso, alla luce di Trap e Bussano alla Porta, anche il plot twist sembra (ri)trovare una nuova collocazione e un nuovo senso: la scoperta di quello che c’è fuori, di una verità sconosciuta -ma annunciata-, un modo per bypassare l’inganno sensoriale nel quale siamo tutti presi contropiede chiusi nelle nostre gabbie, nelle nostre bolle.

È un’altra bolla di Shyamalan: la bolla dentro la quale siamo chiusi, con il cinema che sta pronto ad esplorarne il perimetro opprimente, i limiti difensivi delle nostre gabbie percettive e sensoriali.

Come sempre, con uno sguardo ancora piu inquieto e nello stesso tempo deciso, la macchina da presa corre frenetica alla ricerca delle maglie della struttura, delle falle, degli indizi, dei segni e dei simboli, alla fine delle vie d’uscita.

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