Il cinema di Shyamalan tra la malattia e la famiglia

L'opera di Night Shyamalan è come i suoi film: piena di segni, citazioni, rivelazioni: scopriamo quali sono

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Le coordinate logiche e narrative del cinema di M. Night Shyamalan sembrano seguire il destino nascosto nel suo nome. I suoi film sono fondamentalmente dei thriller che riescono a tenere lo spettatore sulla corda fino alla fine: e tutti, da Il Sesto Senso (sua opera terza, ma la prima ad avere una distribuzione e un successo mondiale) fino al recentissimo Trap hanno alcune caratteristiche che li rendono parte di un unico corpus d’autore.

Nomen omen, come direbbe qualcuno: mentre è proprio nella notte piu oscura che sembrano smarriti gli spettatori dei film di un regista indiano il quale, vent’anni fa, ha letteralmente rovesciato la grammatica del film dell’orrore a favore delle sue ossessioni, grazie all’introduzione di uno strumento narrativo che non solo avrebbe fatto scuola, ma addirittura avrebbe creato una sorta di sottogenere. Parliamo ovviamente del twist ending: il finale a sorpresa che ribalta le premesse della storia e costringe chi guarda a riconsiderare tutto ciò che ha visto finora.

Fine secolo: Il Sesto Senso e Unbreakable

È infatti dal 1999 di The Sixth Sense che Shyamalan costruisce meccanismi precisissimi capaci di cavalcare il genere (l’horror, quasi sempre) e declinarlo secondo la sua passione/ossessione prima di tutto per Alfred Hitchcock, poi per un immanenza perturbante -che facilmente è assimilabile con un’entità di carattere religioso- che scaturisce dalla quotidianità, cosa che riporta dritti al velo di mistero che si posa come un velo su tutta la storia modellandola nell’ottica dell’autore.

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Partiamo allora proprio da lì: dalla storia di Malcolm, lo psicologo infantile che inizia ad aiutare un bambino che grazie al suo sesto senso dice di vedere le persone morte. La costruzione drammaturgica del Sesto Senso è fondamentale, e diventerà un vero e proprio canone nella filmografia del suo autore.

Soprattutto perchè la sorpresa finale non è un facile cliffhanger che Shyamalan posiziona al termine del sentiero per far balzare sulla poltrona lo spettatore.

Tutti i suoi film sono costruiti con una lenta progressione in sottrazione: non è un caso infatti che nella sua vasta filmografia siano quasi sempre protagonisti interpreti con background action calati in ruoli inusuali. Bruce Willis, Samuel Jackson, Mel Gibson, vengono da un certo tipo di cinema e Shyamalan li distorce, li plasma e li costringe a mantenere un basso profilo, immergendoli in una narrazione lenta e meditativa, assorta e sommessa, mentre lentamente ma inesorabilmente, dall’empasse della quotidianità piu ripetitiva nella quale vivono i loro personaggi, scivolano in una dimensione nuova.

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Scoprono l’orrore, prendono atto dll’inverosimile, mentre il regista smonta il concetto dell’horror e lo rilegge, restituendo la paura attraverso l’assenza e non la presenza, la tensione attraverso il suggerimento e non l’imposizione del gran guignol.

In tutto questo percorso, come in un giallo di Agatha Christie, ci sono tutti gli indizi perchè chi guarda (ma solo chi guarda davvero) possa capire dove ci si sta dirigendo, verso quale finale, e con quale intenzioni: insomma, un colpo di scena che pur restando tale non lo è, ma è solo puro svelamento, epifania.

Nel 2000, con il suo quarto film -perchè nonostante quasi nessuno lo sappia, Il Predestinato – Unbreakable è il suo quarto, avendo esordito con l’inedito in Italia Praying with Anger e continuato con il misconosciuto Ad Occhi Aperti– Night tenta impercettibilmente di cambiare direzione, pur rimanendo ancorato al twist ending che con l’opera precedente gli aveva portato la notorietà.

La famiglia disfunzionale

Certo, non di soli twist sono fatte le fondamenta dell’universo poetico del nostro: ogni suo racconto parte da un nucleo familiare disfunzionale e alle prese con la malattia.

Malcolm è vedovo, e il suo paziente, il piccolo Cole, vive con sua madre vedova e con il suo disturbo sensoriale; Elijah Price soffre di osteogenesi imperfetta; padre Graham (in Signs) è vedovo; Ivy Walker (The Village) è cieca e orfana di madre; Cleveland (Lady In The Water) è balbuziente; Loretta (The Visit) è separata e non ha piu rapporti con i suoi genitori da quasi vent’anni; Kevin Wendell (Split e Glass) è schizofrenico; e per finire in Old abbiamo due famiglie sull’orlo della separazione con al loro interno una donna malata di tumore e un uomo che soffre di esaurimento, un emofiliaco e una ragazza con carenza di calcio.

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Insomma, l’opera di Shyamalan corre su binari ben distinti, che definiscono le storie e i personaggi in un mondo coerente. È per questo che Unbreakable cambia le carte in tavola ma non certo l’ambientazione, lasciando oltretutto che il finale riveli non tanto un cambio di prospettiva narrativo quanto esistenziale. La rivelazione porta a capire in che mondo si trovino i personaggi, quali siano le regole, e quindi in definitiva quale sia la morale e l’etica che sorregge tutto.

Certo, il dubbio su un -senza dubbio glorioso ma pur sempre- instant movie c’è, considerando le tempistiche di produzione e il successo globale dell’opera di appena un anno prima; ma ll Predestinato ha una sua ben precisa identità nel momento in cui si nutre e vive di citazioni fumttistiche, sviscerando il concetto di superuomo alla luce della narrativa potmoderna (che va dai capisaldi Wathcmen a V For Vendetta di Alan Moore, fino all’eroe decostruito della Marvel) e legandolo con una passione cinefila strabordante ed estrema, senza contare il gusto per il rovesciamento di prospettiva.

Un detour che viene affinato e migliorato con il passo successivo, Signs.

A posteriori, Unbreakable, pur essendo un grande film, sembra soffrire di una forzatura che l’auotre ha fatto su sè stesso per cambiare restando uguale: mentre il film con Mel Gibson e Joaquin Phoenix mimgliora la commistione di generi, passa ad un altro genere ancora la fantascienza, e continua ad offrire mistero e immanenza rafforzando quel citato senso di immanenza che assume contorni semprepiu decisamente religiosi.

I segni di Signs

Signs (2002) migliora il debito con Hitchcock citando Gli Uccelli, ma soprattutto trasforma i segnali del titolo da indizi di un enigma a segnali d’affetto, e in tutto il film si ricercano le tracce di qualcos’altro, dello straordinario celato nell’ordinario, dei segni attraverso i quali intuire l’essenza immateriale della nostra esistenza.

Signs è, in quest’ottica, è il tassello di un’evoluzione costante e matura, soprattutto la chiave ermeneutica per comprendere il senso del cinema del regista. La narrazione è dimessa e costante, la messinscena raffinata: ed è proprio l’immanenza a dare un senso non solo al film ma al corpus dell’autore, nella continu aspirazione a trovare prove tangibili dell’intangibile, ricerca sublimata nella creazione artistica dove è lo stesso Night a dvenire demiurgo, stabilendo con i propri plot twist le forme attraverso cui la vera essenza della realtà si manifesta agli occhi di chi guarda, segni con cui entrare in contatto con la realtà noumenica delle cose.

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Se Signs rende chiaro l’apparato teorico dell’opera shyamalaniana, non intacca però la concretezza dll’apparato narrativo, e la speculazione intellettuale non intacca e non incide minimamente sul racconto che mette al centro, sempre e comunque, l’esperienza emotiva ed emozionale degli uomini protagonisti.

Una poetica ben precisa che trova la sua conferma se si legge neanche tanto tra l righe del secondo film di cui nessuno parla, Wide Awake (Ad Occhi Aperti, 1998), la storia di un bambino che dopo aver perso il nonno decide di cercare Dio per placare i suoi turbamenti esistenziali. Trovando segnali e disegni piu vicini a lui di quanto potesse pensare all’inizio.

Se quindi Signs è un gradino ulteriore nella ricerca artistica, The Village del 2004 è ad oggi il capolavoro inarrivabile di Night Shyamalan.

Guardando bene i suoi film, ci si rende conto sempre di piu la compattezza con cui il regista porti avanti le sue ossessioni e racconti storie diverse ma sempre attraverso gli stessi mezzi, gli stessi segni.

Un cinema che instilla inquietudine tramite l’esibizione di segni di forme e presenze estranee al quotidiano, presenze formate di ombre e di assenze e per questo ancora piu spaventose.

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La paura dell’ignoto: The Village

È in fondo di questo che sembra parlare la trama di The Village: una comunità di fine ‘800 che vive isolata in un bosco, in un villaggio fortificato per tenere fuori mostruosità non identificate. Proprio quando le paure avranno un nome, e le assenze avranno un volto, il film si incendia con un incredibile cortocircuito di senso diventando un’opera enorme, immensa.

Addirittura restando attuale oggi pur parlando fortemente del post 11 settembre e del’America di Bush, nel momento in cui si rende conto che il Male non lo si può chiudere fuori semplicemente sbarrando la porta, The Village -esordio su grne schrmo di un’interprete efficacissima come Brice Dallas Howard– non è un film di paura ma sulla paura, non è un horror truculento ma un raffinato thriller psicologico: e ancora piu che nei film precedenti, il plot twist è talmente radicato nella trama e nel senso stesso del film da risultare ineluttabile.

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Da questo punto di vista, questa fiaba oscura è il punto piu alto della visione di Shyamalan, il centro perfetto del suo cinema dove tutto ha un equlibrio impressionante e un’emotività altissima, nonchè un’opera preziosa che fa dell’inganno la strada per la verità.

Inevitabilmente, come spesso capita agli autori, il raggiungimento della vetta massima coincide anche con un successivo calo qualitativo: probabilmente, dopo aver trovato l’esatto punto di equilibrio perfetto e assoluto per tutte le sue ossessioni con The Village, era pressocchè impossibile continuare sulla stessa strada e restare in alto.

Da Lady in the Water ad After Earth: una pausa d’autore

Per questo, Lady In The Water (2006) e …E Venne il Giorno (2008) vedono Shyamalan cambiare completamente registro, restando seppur vagamente sul mistery ma eliminando completamente dal suo universo alcuni segni di stile che rendevano i suoi film personali quanto preziosi.

Un cambiamento che non trova il favore ne della critica ne del pubblico, ma a ragione: perchè per quanto perfetti dal punto di vista formale, i due film sono algidi e spersonalizzati, un esercizio di stile sterile e senza senso che disperdono le ottime intuizioni visive dell’autore e alcune belle suggestioni di trama.

Il deragliamento al botteghino diventa totale con il successivo dittico: L’Ultimo Dominatore dell’Aria (2010) e After Earth (2012) sono il tentativo maldestro del regista indiano di riciclarsi passando dall’horror/thriller delle sue prove precedenti alla fantascienza e al fantasy.

L’Ultimo Dominatore -in origine, secondo la produzione, primo capitolo di una trilogia immediatamente abortita- è completamene fuori fuoco, incapace di ammaliare il pubblico infantile, inadatto ad un target piu adulto per manifesta stilizzazione dei personaggi, senza nessuna coesione interna ma soprattutto così pesante da soffocare ogni respiro epico, ingrediente necessario per il fantasy piu elementare.

After Earth 2013 di M. Night Shyamalan

Insomma, non sembra Syamalan: senza il suo incedere elegante, senza la sua atmosfera quasi mitteleuropea nello sviluppo psicologico, senza la sprezzante, forse arrogante ma certo vincente volontà di mettere sempre e comunque in primo piano il discorso poetico.

Ancora peggio l’After Earth che pure contava sulla presenza attirapubblico di Will Smith con figlio Jared al seguito: ma si punta al grado zero della fiaba, e si arriva a prosciugare ogni ironia lanciando qua e la morali e metafore seriose e conservatrici.

Passano altri due anni nei quali l’ispirazione (come la carriera) di Shyamalan sembra definitivamente spirata, quando arriva invece la Blumhouse di Jason Blum che riporta (questa volta davvero) la dimensione narrativa e il mondo poetico del regista al punto zero, con una produzione low budget che però ritrova il nocciolo fondante di un cinema ricco e sfaccettato quanto magmatico ribollente.