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Trap sarà il miglior film di Shyamalan?
Con “Trap” Shyamalan lavora sul punto di vista, facendo del suo “twist”-marchio-di-fabbrica un film intero, proprio perché il protagonista – quello per cui volenti o nolenti ci troviamo a parteggiare – è un serial killer indifendibile, un “macellaio” (come, dal trailer, viene soprannominato), il mostro dietro l’apparenza di normalità.
A causa dell’ambientazione e dell’unità temporale della narrazione (si badi bene che questa è un’analisi a priori: il film non l’abbiamo ancora visto) molti ci hanno trovato somiglianze con “Omicidio in diretta” di De Palma, ma siamo sicuri che siano solo similitudini di facciata, perché i due registi operano, pensano e filmano in direzioni del tutto diverse.
Il nuovo film di Shyamalan in uscita il 2 agosto si chiama “Trap” e già dal titolo scatta il metacinema. Le storie di Shyamalan sono infatti vere e proprie trappole, messe in scacco dello spettatore, prese di posizione dello sguardo che costringono a mettere in discussione preconcetti e – spesso e volentieri – idiosincrasie.
Racconti che si interrogano e ci interrogano sul mondo che ci circonda (“E venne il giorno”, ma anche in misura minore il sottovalutato “After Earth”), sulla nostra percezione della società (“The Village”, autentico capolavoro dove in realtà il focus sociale si allarga alla Storia), dell’altro (“Signs”), delle nostre credenze e priorità (“Bussano alla porta”), della fallacia dello spettatore in quanto fruitore del prodotto filmico (“Il sesto senso”, che ci fa credere per più di un’ora e mezza di aver visto una cosa, salvo smentirsi e smentirci).
Cinema di genere, ma dall’approccio fortemente teorico (come, in maniera trasversalmente opposta da moltissimi punti di vista, John Carpenter), inventa con “Il sesto senso” il noto “twist alla Shyamalan” ormai entrato nel gergo cinematografico per indicare una svolta nella trama che, con l’effetto di un colpo di scena, ribalta del tutto il messaggio e il senso stesso del film.
L’adozione del punto di vista dell’assassino non è cosa nuova nel cinema: dal noir degli anni ’40 fino ad oggi gli esempi sono innumerevoli. Si è sempre trattato però di una transizione momentanea nello spazio narrativo, necessaria ad aggiungere pathos, tensione o ad orientare un discorso.
Quello che però ha fatto Shyamalan non ha apparentemente precedenti: il killer è la vittima (perché braccato, in fuga), lo spettatore è il killer. Un corto circuito vertiginoso che, per tale motivo, si prospetta come qualcosa di mai visto nella filmografia del cineasta. E il sorriso mefistofelico – che vediamo nel provino – di un ritrovato Josh Hartnett, da anni confinato a ruoli più o meno marginali (con menzione speciale per “Oppenheimer”) o film di secondo piano, è già qualcosa di estremamente terrificante. Speriamo solo che l’uscita nelle sale in un periodo così disgraziato non penalizzi troppo gli incassi.
Che ne pensate?