Dostoevskij, la recensione del film dei fratelli D’Innocenzo
Dostoevskij, I e II atto di un thriller psicologico dal retrogusto dark - esistenzialista. I fratelli D'Innocenzo non si smentiscono, e anzi rilanciano.
Dostoevskij è un thriller psicologico forte, asciutto, che lascia completamente a nudo e senza fiato. Presentato in anteprima mondiale alla 74ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, è ancora al cinema con il suo I e II atto, prima di approdare definitivamente come miniserie su Sky. Qui la nostra recensione.
Dostoevskij, La Trama
Enzo Vitello è un detective, ma soprattutto un padre. Alla ricerca ossessiva di un serial killer e di un’improbabile redenzione dal suo passato, troverà in Dostoevskij l’alter ego che rispecchia e cura le ferite della propria anima. Grazie ad uno scambio epistolare che avviene per abitudine sulle scene del delitto, questo poliziotto completamente svuotato dal passato, riuscirà a sopravvivere all’inadeguatezza ed oscurità del presente. Ma a che prezzo?
Dostoevskij, La Recensione
Vietato rimanere in superficie. Il primo atto e l’ultimo dei fratelli D’Innocenzo, che con Dostoevskij portano sé stessi e gli spettatori oltre i limiti: fino a che punto è possibile spingersi? Fino a quando è lecito resistere?
Tutte le premesse esplorative ed esistenziali le avevamo già avute con altri capolavori registici quali Favolacce e America Latina, in cui la discesa agli inferi aveva il sapore di una condanna verso l’essere umano e una società sempre più distante, scissa e anaffettiva.
Dostoevskij è un film per fegati resistenti. Damiano e Fabio non si e non ci risparmiano niente. La calma apparente dei paesaggi in campo lungo lascia spazio alla dimensione dilaniante e interiore dei personaggi, spezzati in due dai dettagli dei primi piani e dal male.
Nella realtà in cui vive Enzo Vitello (Filippo Timi) tutto è corroso e consumato irrimediabilmente dalle circostanze. Il gusto dell’atmosfera retrò, con filtri e oggetti anni ’80 – ’90 – un plauso alla fotografia di Matteo Cocco, al montaggio di Walter Fasano e alle musiche di Michael Wall – lasciano intendere di trovarsi in un luogo fuori tempo, in cui tutto “decade” senza redimersi mai.
Non l’ombra di un sorriso, una speranza, di uno spiraglio di luce, l’unica si intravede dai colori cupi e grigiastri delle mattine insonni e dagli occhi spalancati al cielo di Ambra (Carlotta Gamba) la figlia di Enzo.
D’altronde “l’unico modo di dare alla gente un futuro migliore è garantirgli un presente terrificante”, in cui il degrado dell’esterno rispecchia il marcio di ciò che avviene dentro. Un po’ Oscar Wilde, un po’ Freud, traspare secondo i fratelli D’Innocenzo l’idea di una natura feroce e “sbagliata” di cui Enzo e la società decadente rappresentano egregiamente tutte le sfumature.
Il cast
Filippo Timi, uno di quegli attori che buca lo schermo, capace di interpretare ogni dettaglio in ogni momento, in grado di scavare e scavarsi dentro, anche fisicamente, e di ipnotizzare già col suono della voce. Qualcosa ci inquieta nei suoi silenzi e movimenti, occupa in modo ingombrante lo spazio, tocca le corde più remote dell’inconscio. Arriva sino alle viscere, ci sbatte addosso tutta la disperazione e l’ossessione, in un sapiente gioco di luci ed ombre che lo fa rimanere sempre in bilico, sull’orlo di una straordinaria follia.
E poi la giovane (e bravissima) Carlotta Gamba, ovvero Ambra, con cui instaura una chimica familiare pazzesca, in un climax teatrale che sfocerà nella più magnetica e selvaggia delle performance: quella del confronto, della verità, dell’abbandono, dell’ autolesionismo e punizione (anche questi, tipicamente freudiani…)
A differenza di Freud però, i fratelli D’Innocenzo sembrano far trapelare un messaggio importante: nessun peccato originale, ci si ammala nei rapporti, e nella mancanza spasmodica di essi.
Anche gli altri personaggi hanno un profilo e una quadra ben precisa: il miglior amico e capo di Enzo (Federico Vanni) “l’ultimo romantico” rassegnato alla decadenza e al lerciume del mondo, e Gabriel Montesi, enigmatico, indecifrabile, l’uomo che “deve restare in superficie” per mantenere ruolo e apparenze e saper “ricucire” la propria anima. La più perfetta incarnazione di una società che non ha in nessun modo il coraggio di guardare dentro sé stessa.
Dostoevskij come Zodiac
Dostoevskij è un thriller psicologico in cui il dito, più che verso l’assassino, è puntato verso Enzo Vitello e tutti quelli che in lui si confondono. Nell’apertura del primo atto, nella lettera lasciata a terra nel suo tentativo di suicidio, vi è già un segnale importante di quello che avverrà dopo, della sovrapposizione identitaria e del dialogo patologico e dipendente che si instaurerà con il killer.
C’è tanto anche di ispirazione americana, sia nella tecnica che nei contenuti: basti pensare a Zodiac di David Fincher, con gli straordinari Mark Ruffalo e Robert Downey Jr, in cui il killer “gioca” a cane e gatto con polizia e stampa lasciando nel corso dei delitti indovinelli dal sapore esistenziale. L’enigma dell’omicidio e del criminal profiling che i D’Innocenzo rendono però ancora più crudo ed esistenzialista. Pensiamo anche al romanticismo violento e feroce di Sheridan, con ad esempio I segreti di Wind River.
Ma chi è quindi Dostoevskij? Uno, nessuno, centomila. È il killer, – con sorpresa tra l’altro nel plot twist finale, alla Criminal Minds– ma è anche Enzo, che si fonde con il pensiero e il respiro della vittima e sono tutti i protagonisti, persi nella profonda scissione del proprio ego e delle proprie manie. Vitello non si ritroverà dunque faccia a faccia con il killer, ma con sé stesso, nell’ atto finale di un’opera che porterà la sua firma.
L’amore esiste
Ma, nella descrizione mortifera di un’umanità baudelairiana tormentata e inquieta, sprofondata negli abissi, esiste uno scampolo di luce? Difficile trovarla nella mano registica degli autori, che però si soffermano su alcuni dettagli importanti. Quelli di una camicia stirata per incontrare la propria figlia, unico amore che sorregge il nostro protagonista. Il calore dei rapporti umani, quelli per cui alla conclusione del primo atto, su una tavola imbandita, una ragazza dalla voce candida e innocente canta “l’amore esiste, e il suo braccio ti allontanerà per sempre dal passato”. Un po’ come “The Power of Love” in chiusura di “All of us Strangers” di Andrew Haigh per cui, in qualche modo, aprire gli occhi alla luce del sole è ancora possibile.
Dostoevskij, Il Cast
Filippo Timi: Enzo Vitello
Carlotta Gamba: Ambra Vitello
Gabriel Montesi: Fabio Bonocore
Federico Vanni: Antonio Bonomolo
Dostoevskij, Il Trailer
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