Che aspettative avete per il sequel di Beetlejuice? Anche voi sperate di ritrovare il buon Tim Burton di un tempo? Ecco cosa ne pensiamo noi
Sono passati trentasei anni dal primo “Beetlejuice”, capolavoro surrealista (possiamo dirlo oggi senza essere accusati di esagerazione?) col quale Tim Burton fece il suo dirompente ingresso nella Storia del Cinema (l’esordio di poco precedente, “Pee-wee’s Big Adventure”, è davvero poca cosa).
Un tripudio divertente e irriverente di invenzioni visive che è tra le vette assolute di un autore osannato, glorificato, messo sul podio dei cineasti più creativi e originali di sempre. Ed è stato lodato sicuramente a ragione, perché se il successivo “Batman” è un cinecomic blockbuster riuscitissimo (averne oggi!), il suo sequel “Batman – il ritorno” è un altro capodopera, un supereroico dolente dalle venature horror che mette al centro un’idea di freak personalissima e inimitabile.
E qui arriviamo al fulcro del discorso: il freak, il mostro suo malgrado, il reietto. Il successivo “Ed Wood”, affettuoso omaggio al “peggiore regista del mondo” Edward Davis Wood Jr, fa del famigerato autore di “Plan 9 from Outer Space” (se non l’avete visto correte a recuperarlo!) l’ennesimo magnifico emarginato burtoniano.
Impareggiabile (o comunque, con pochissimi eguali) creatore di mondi, Burton ha oltretutto ostentato nella prima fase della propria carriera un’indole sovversiva non comune, che in termini di sfrontatezza e (sana) cattiveria ha visto il culmine in film sbalorditivi quali “Mars Attacks!” e “Sweeney Todd”, quest’ultima indubbiamente l’opera più nera e disperata del regista.
Un’audacia anche e soprattutto citazionista, come ben ricordano lo stesso “Mars Attacks!” (che, in tal senso, è un calderone di mezzo cinema di serie B degli anni ’50) e il non meno straordinario “Il mistero di Sleepy Hollow”. Gli si perdona volentieri lo scivolone di “Planet of the Apes”, remake bruttarello del classico del 1968, perché quello che sarebbe arrivato di lì a un paio d’anni è il suo film più bello in assoluto per la stragrande maggioranza dei suoi ammiratori.
Parliamo ovviamente di “Big Fish”, nel quale Tim Burton riversa tutto il proprio cuore e una tenerezza fatta di commozione incomparabile, come non accadeva dai tempi di “Edward mani di forbice”. Non abbiamo purtroppo il tempo di celebrare Tim Burton in tutte le proprie sfaccettature artistiche, né di tessere le lodi dei meriti di ogni suo singolo film, ma appare abbastanza chiaro che da “Alice in Wonderland” (incluso) in poi qualcosa si è incrinato.