Non Aprite Quella Porta: perché a distanza di 50 anni è ancora un capolavoro

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Nel 1974, cinquant’anni fa, Tobe Hooper riscriveva l’horror moderno con un film cult che è rimasto insuperato come crudo e terrificante commento su una società sempre più violenta e inumana. Ecco perché Non Aprite Quella Porta andrebbe rivisto (e amato) oggi più di ieri

Se esiste un horror che non è stato minimamente scalfito dal tempo quello è “Non aprite quella porta”. Più de “La notte dei morti viventi” e forse perfino più de “L’esorcista” – per citarne solo alcuni – il film di Tobe Hooper mantiene inalterata una carica sanguinaria, visionaria e poetica (approfondiremo a breve il perché di quest’ultimo singolare appellativo) che a distanza di cinquant’anni è ancora spiazzante.

Quentin Tarantino, per quanto inattendibile nella divulgazione di liste di film preferiti continuamente revisionata, lo ha definito l’unico vero film perfetto della Storia del Cinema. Ovviamente si è costretti a dissentire perché l’elenco sarebbe lunghissimo, ma la domanda scaturente è: cos’è un film perfetto?

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Non vorresti aggiungere o togliere nemmeno dieci secondi degli ottantaquattro straordinari minuti di durata della pellicola: non una scena, non un piccolissimo scarto che sembra inutile, né allungheresti di mezzo minuto una sequenza, conscio dell’essenzialità sobria e impeccabile che il film manifesta tanto nella truculenza quanto nella quiete che la precede.

Ma c’è di più: ci sono squarci di natura mort(ifer)a, un senso di desolazione che tracima nell’abbandono, oggetti che appaiono come suppellettili del male lasciati a marcire, la calura che sembra costantemente riversarsi nell’inquadratura. È qui che sta la poesia: “Non aprite quella porta” ha un sostrato sinfonico sottostante l’apparente manto da B movie low budget di greve macelleria, ed è una sinfonia malefica.

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