Il Caso Goldman, recensione del film di Cédric Kahn
Il Caso Goldman è il dodicesimo lavoro del regista Cédric Kahn che dopo Roberto Succo (2001) e Feux rouges (2004), regala al pubblico un intensissimo legal drama fra le maggiori opere cinematografiche uscite nel 2024.
Il Caso Goldman, è nelle sale italiane dal 23 maggio 2024. Basato sulle testimonianze dell’epoca e tratto da “Memorie oscure di un ebreo polacco nato in Francia”, libro scritto in carcere da Pierre Goldman, ha aperto la 55° Quinzaine des Cinéastes del 76° Festival di Cannes. Qui la nostra recensione.
Il Caso Goldman, La Trama
Pierre Goldman fu personaggio controverso, guerrigliero, criminale, intellettuale e militante politico. Nato nel 1944, pochi mesi prima della liberazione di Lione, da due immigrati ebrei polacchi attivamente impegnati nella Resistenza, aderisce sin da giovane ai movimenti studenteschi di ispirazione comunista, sostenendo nella metà degli anni ‘60 la guerriglia comunista in America Latina, post mortem di Ernesto Che Guevara nel 1967. Nel 1969 torna a Parigi, diventando a tutti gli effetti un uomo ricercato dalla legge e compiendo una serie di rapine a mano armata che lo porteranno all’arresto l’anno successivo con vari capi d’accusa, in particolare per l’omicidio di due persone durante una rapina alla farmacia Delaunay, nell’XI arrondissement.
Il film del regista Cédric Kahn si concentra sul processo del ’75 – ’76 avvenuto presso la corte d’assise di Amiens, dopo un annullamento in cassazione della precedente condanna all’ergastolo. Il sospetto è quello di una grande macchinazione della polizia, fondata su motivi politici e sul pregiudizio antisemita. Un caso giudiziario che in Francia fece scalpore e che diventò una vera e propria battaglia ideologica e antistituzionale per il popolo francese che riconosce in Goldman un martire da salvare più che un presunto criminale da condannare.
Il Caso Goldman, La Recensione
Un film forte, incisivo, essenziale. Gli estimatori di Cédric Kahn non sono rimasti certamente delusi dalla prova cinematografica del regista, che scrive questo film insieme alla sceneggiatrice Nathalie Hertzberg, a partire dalle cronache dei giornali dell’epoca. La cronaca giudiziaria in Francia è un genere letterario e giornalistico di straordinaria longevità ed è questa tradizione che proprio Goldman contesta quando, in apertura del processo, rifiuta di parlare di sé e della propria vita ai giornalisti in cerca di pathos e di racconto: “Sono innocente perché sono innocente”.
Nessuna dietrologia dunque, nessun trauma con cui simpatizzare, nessuna dimostrazione di innocenza da parte di terzi. Perché “essere un criminale non significa essere un assassino” e questo per Goldman sarà l’unico capo d’accusa che rifiuterà con determinazione fino alla fine. Tutto si svolge “dentro l’azione”, immersi nelle quattro mura dell’aula processuale. Una sorta di “giorno in pretura” in salsa francese, da cui però non si riesce a staccare gli occhi neanche per un secondo. La bravura e l’interpretazione degli attori (Arieh Worthalter è l’inarrestabile Goldman, Arthur Harari il suo avvocato difensore Georges Kiejman, Stéphane Guérin-Tillié il giudice), scelti probabilmente non in base alla fama ma all’efficacia della performance, da cui non si deve distogliere l’attenzione.
Il ritmo, le inquadrature, l’azione scenica
La scelta anche di tre camere, posizionate in punti strategici per giocare sui campi medi e sui primi piani, detta il ritmo dell’azione e non dà tregua al respiro tra una sequenza e l’altra. Una tecnica efficace, che lascia emergere le emozioni nell’azione e negli accadimenti, con pochissimi accenni di natura psicologica o sentimentale. Solo con due testimonianze, quella del padre di Goldman (il grande attore polacco Jerzy Radziwiłowicz), e della ragazza a cui era legato sentimentalmente, si scopre il fianco del protagonista, il quale però lascia che su questo aspetto siano gli altri a parlare per lui.
Nessuna forma di intimità o scavo, per un uomo che desidera difendere in modo asciutto ed energico la sua singolare forma di integrità morale. Non una nota musicale ad alleggerire il racconto, soltanto gli implacabili artifici della retorica forense, e i silenzi che dominano la scena dell’accusa, tanto quanto della difesa.
Nella perversione delle gesta, nella complessità del suo sguardo e nella sentenziosità delle sue affermazioni sembra insinuarsi una domanda che sa di verità: la legge è davvero uguale per tutti?
Un dubbio che rimarrà fino alla fine, nonostante la delibera del giudice. Perché per Kahn non è tanto importante il fine, quanto il mezzo necessario per arrivarci: “[…] Volevo che lo spettatore si trovasse nei panni di un giurato e, nel corso del dibattimento, potesse formarsi la propria opinione. In assenza di prove, come in questo caso, ciò che rimane è il linguaggio. Il vero soggetto di questo film è la dialettica”.
Un film “fisico”, concentrato, ritmato, che si muove lungo le dinamiche del dibattito e le reazioni del pubblico e dei personaggi. Il Caso Goldman è un grande cinema di scrittura e di ricostruzione storica. Da non perdere.