Il Regno Del Pianeta delle Scimmie (Kingdom of the Planet of the Apes, di Wes Ball) è un film in sala dall’8 maggio 2024: è il quarto capitolo della serie reboot iniziata nel 2011 con L’Alba del Pianeta delle Scimmie(Rise of The Planet of the Apes, diretto da Rupert Wyatt), e continuata nel 2014 con Apes Revolution- IlPianeta delle Scimmie (Dawn of The Planet of the Paes, di Matt Reeves) e con The War – Il Pianeta delleScimmie nel 2017 (War for the Planet of the Apes, sempre con la regia di Ball).
Il franchise originale parte invece nel 1968 con Il Pianeta delle Scimmie(Planet of the Apes, di Franklin J. Schaffner), e prosegue poi con L’Altra Faccia del Pianeta delle Scimmie(Beneath the Planet of the Apes, di Ted Post, 1970), Fuga Dal Pianeta Delle Scimmie(Escape from the Planet of the Apes, di Don Taylor, 1971), 1999: Conquista della Terrae Anno 2670: Ultimo Atto(Conquest of the Planet of the Apese Battle for thePlanet of the Apes, di J. Lee Thompson, 1972 e 1973)
In origine, le scimmie
Il Pianeta Delle Scimmie (Le Planete des singes) è, ovviamente, un romanzo di Pierre Boulle, originariamente conosciuto con il titolo Viaggio a Soror, libro uscito nel 1963: romanzo che beneficiava della fama dell’autore conosciuto e amato per Il ponte sul fiume Kwai (Le pont de la rivière Kwai, del 1952), e che presentava una storia lievemente diversa da quella che sarebbe poi diventata famosa.
Boulle infatti partiva con un prologo che vedeva una coppia di viaggiatori spaziali trovare la classica bottiglia alla deriva in mare, con dentro un libro. Libro che portava la firma di un giornalista inglese del XXVI secolo Ulisse Mèrou, il quale aveva raggiunto il pianeta Soror (in francese, sorella) popolato da scimmie antropomorfe, con una propria lingua e una propria tecnologia avanzatissima.
In quel pianeta era l’uomo ad essere selvaggio e ingabbiato, mentre le scimmie dividevano la loro società in classi: la situazione era il frutto di esperimento genetici sulle scimmie compiuti per fargli compiere lavori pesanti. Ma la cosa è tenuta nascosta a tutti: e quando Ulisse cerca di diffonderla, viene perseguitato. Riesce però a scappare con la propria astronave e tornare sulla Terra: dove però erano intanto trascorsi 700 anni, e la storia si era evoluta proprio come su Soror, con le scimmie ora a capo dell’uomo.
Contestualizzando prima di tutto il romanzo di Boulle nella sua epoca, salta subito agli occhi la sua prima e più importante rivoluzione: contrariamente alla fantascienza in voga, Il Pianeta delle scimmie mostrava un progresso tecnologico che nel futuro non portava pace e benessere, ma distruzione.
Certo è che nel 1968 Franklin J. Schaffnersi prende un bel rischio, sia dal punto di vista della messa in scena che da quello teorico e politico: perché utilizza come punto di partenza il testo di Boulle ma decide di rimaneggiarlo (vuoi per motivi legati al budget, vuoi per rendere la storia più cinematografica) creando ovviamente inconsapevolmente uno dei capolavori assoluti della fantascienza, ancora oggi capace di avere una forza visiva incredibile, con sequenze passate alla storia che sanno colpire con violenza anche lo spettatore più smaliziato.
Gli ultimi anni Sessanta erano intrisi di guerra fredda, pellicole di propaganda, rischio atomico: e allora il regista di Santa Monica, premio Oscar nel 1971 per Patton Generale d’Acciaio, realizza un film-manifesto dal carattere fortemente pacifista creando una delle distopie più celebri su grande schermo.
La suggestione di Boulle serve però per privare l’uomo di ogni sovrastruttura e metterlo difronte alla sua stupidità, costruisce un racconto filosofico, politico e sociologico dal meccanismo perfetto, con una storia che è un sunto di paradossi temporali e metafore ecologiste che però viene permeata di mistero grazie ad una fotografia e ad una scenografia che sanno ammantare il racconto di luminoso mistero e strisciante inquietudine. Schaffner è abilissimo a gestire i risvolti introspettivi dei personaggi con espedienti narrativi che hanno fatto scuola, senza dimenticare le scene action che diventano un vero e proprio valore aggiunto della visione con una fisicità rabbiosa e disperata.
Inaspettatamente, è però il trucco a farla da padrone e a rendere il film realmente immortale: il make-up prostetico di John Chambers è stato premiato con un Oscar speciale, ma neanche la statuetta può restituire l’incredibile lavoro fatto che ancora oggi può sfigurare davanti agli effetti digitali.
Il Pianeta Delle Scimmie, la pentalogia: una saga altalenante
Forte di un successo abnorme, il film ha un seguito due anni dopo che, alla faccia di ogni sequel più contemporaneo sa come ribaltare la storia e creare una narrazione che cerca intelligentemente altre strade che non siano quelle battute dal predecessore, probabilmente fin troppo totemico per subire qualsiasi tentativo di copia.
L’Altra Faccia del Pianeta delle Scimmie allora mostra come realizzare un sequel all’altezza delle aspettative restando fedele al film originale ma senza ricalcare niente. E dire che partiva già in perdita: Charlton Heston non ne voleva sapere di tornare, e allora appare solo all’inizio e alla fine, rimpiazzato dal meno efficace James Franciscus.
Nonostante questo, Ted Post, discreto mestierante con all’attivo Impiccalo Più in Alto, non evita alcune ingenuità ma riesce a dare ritmo e costruire un affresco convincente anche con il budget dimezzato. Le maschere di Chambers restano la carta vincente, espressive e incredibilmente di impatto, e anche se manca inevitabilmente la magia del capostipite il film sa intavolare un discorso per niente banale sul potere del culto e sulla potenza distruttiva del fanatismo come monito contro tutte le guerre, all’ombra dell’incubo della bomba atomica.
Fuga Dal Pianeta delle Scimmie inizia a mostrare la corda, ma è più pregno di sottotesti rispetto al predecessore (che invece puntava tutto sulla maestosità dello spunto narrativo): il risultato è un mash-up poco convincente che a tratti rischia la noia, non riuscendo a centrare l’invettiva politica.
Gli ultimi due fanno un po’ storia a sé: il regista è lo stesso, e cambiano totalmente l’impostazione narrativa. Per questo, probabilmente, l’inventiva è mediocre e il tono scivola spesso nel grottesco involontario, e le situazioni sembrano spesso puerili e con una potenza scarsissima, con un significato fin troppo trasparente nell’allegoria del potere e della sua condanna. Anno 2670: Ultimo Atto si salva un po’ perché è più incisivo, anche se l’idea di base risulta fin troppo sfruttata e le contrapposizioni (bene e male, impeto e ragione, tolleranza e intolleranza) sono sfilacciate.
Planet of the Apes: le scimmie di Tim Burton
I cinque film restano nell’immaginario comune come un unicum, e la potenza del primo trascina di forza i restanti capitoli con un’inerzia che seppellisce il disincanto con il mito.
Nel 2001 un regista geniale come Tim Burton riprende la storia e la distorce per creare un’opera che rimane, tutt’oggi, come sospesa.
Annunciato e atteso al varco in maniera spasmodica, Il Pianeta delle Scimmie di Burton è un’opera fraintesa: probabilmente è il regista di Beetlejuice a portare su di sé fin troppe aspettative ma con un fandom duro e puro che pretende da lui un tono ben preciso. Perché è proprio Planet of The Apes che segna una sorta di cesura nella sua filmografia, che da selvaggia e istintuale passa ad essere più stratificato e concettuale, e per questo più esposto e meno immediato.
È fin dai titoli di testa che Burton compie una spericolata quanto esemplare: segni, forme, simboli, sono tutte tracce che il racconto segue per mettere in scena una civiltà che si dispiega in linee curve mentre esplora il mito. Tim Burton contemporaneamente mostra la sua ossessione per le forze fondatrici del mito, legando la favola all’orrore, alla crudeltà e alla follia.
Probabilmente, nella resa in sala il pubblico non ha recepito le intenzioni del regista, che ha (avuto) uno sguardo fin troppo complesso che per questo può anche deludere o tradire (alcune) aspettative. Anche perché c’è ovviamente la -eterna e strettamente burtoniana– re-immaginazione della lotta di confine tra bene e male, normale e anormale, realtà e irrealtà, diversità e uguaglianza: ma è un’apologia della diversità che non si lega fino in fondo con il mito fondante e originario di Boulle, rendendo Planet of the Apes qualcosa di impalpabile e allo stesso tempo troppo pesante.
Il Pianeta delle Scimmie, la quadrilogia: rifondazione, rivoluzione
Se sia una coincidenza o meno non ha importanza: fatto sta che se Burton ritenta la fondazione del mito all’alba del nuovo secolo, esattamente dieci anni dopo all’alba degli anni Dieci viene tentata un’altra strada per rileggere il mito.
E coerentemente con i nuovi linguaggi nonché le nuove forme espressive, con L’Alba del Pianeta delle Scimmie Wyatt mette in chiaro e/o ribadisce che oggi il cinema non può fare a meno di guardare indietro e guardarsi, tornando alle origini di ogni mito fondativo. Rise of the Planet of the Apes fa quindi un passo in più, indietro e avanti: perché prende il romanzo di Boulle e non lo trascina su un’altra dimensione (come aveva fatto Schaffner), ma ne riprende anche il nucleo fondante, ovvero l’operazione genetica dell’uomo sui primati. Certo, compie anche una necessaria opera di ammodernamento contemporaneo, ma anche rilancia, rifiuta la copia e opera un reboot.
L’impasse del progresso tecnologico, il vicolo cieco evolutivo, la ribellione alla concentrazione del potere, sono tutti sottotesti che brillano negli occhi delle scimmie che rinunciano al trucco prostetico (altra negazione del passato) ma non per questo risultano meno emozionanti nella computer grafica. in tutte queste riflessioni immediate, che probabilmente mancavano al remake burtoniano, sta l’efficacia del film di Wyatt, che intreccia il racconto con la memoria smarrita e il futuro mancato.
Il film successivo, Apes Revolution, complica un po’ le cose dal punto di vista strettamente narrativo.
Per niente aiutato dai titoli italiani (che dimenticano completamente il significato di Rise e Dawn nei titoli originali), l’opera di Reeves decide di proseguire nel solco dell’episodio immediatamente precedente non solo compiendo una cesura di impostazione con il prototipo, ma addirittura intraprendendo nuovi sentieri con una trama che si dipana libera sia da Boulle che dalla pentalogia classica.
In tutto questo, Apes (o Dawn…) vuole avere un respiro più ampio, e allora sposta il focus dalla riflessione bioetica della sfrenata ricerca scientifica -cuore del romanzo e del film di Wyatt- sulla tolleranza, sui confini che sbiadiscono quando i concetti si fanno troppo grandi, riuscendo ad essere un kolossal violento e adulto, cupo e disperato, che lascia volutamente i personaggi umani sullo sfondo regalando il palcoscenico quasi esclusivamente alle scimmie (digitali).
Wes Ball, regista dell’ultimo capitolo Il Regno del Pianeta delle Scimmie (finalmente tradotto in maniera letterale), continua nella scia di Wyatt e Reeves e firma allora un terzo capitolo spettacolare, con uno sguardo estetico ed etico insieme.
Allora Rise ragionava sulle derive del biopotere senza etica, Dawn innestava discorsi sociali in un periodo dove le culture non possono che scontrarsi: e War ripesca l’avventura cinefila come dispositivo di identificazione con l’eroe -o antieroe che sia- e come campo di riflessione della filosofia post-apocalittica.
Siamo nel 2017, e ancora è fortissima la sensazione del dubbio sul war-movie come strascico ideologico, emotivo, politico e sociale del post 11 settembre: ma il film ha l’abilità e l’intelligenza di giocare con i generi e commistionare il war-movie con il western, sparigliando le carte con personaggi che intrecciano pubblico e privato identificando nello stesso tempo la storia e l’immaginario in un contesto particolarmente contemporaneo. Consapevole di avere personaggi archetipici che possono fungere da ponte tra il passato di Hollywood e il futuro del cinema.