Tratto dal romanzo di Patricia Highsmith, "Ripley" di Steven Zaillian è su Netflix dal 4 aprile 2024.
La serie con Andrew Scott protagonista, si è rivelata un successo per tutti gli amanti del cinema noir e neorealista.
Qui la nostra recensione, tutta da gustare.
In una New York in bianco e nero del 1961 vive Tom Ripley, un camaleontico truffatore senza scrupoli e un uomo profondamente dedito alla solitudine. Grazie al magnate Herbert Greenleaf, gli verrà commissionato il più grande affare della sua vita: andare fino in Italia per convincere suo figlio Dickie a tornare nella Grande mela e assumersi le sue responsabilità di adulto. Qualcosa però nell’incontro con il ragazzo cambierà le loro vite per sempre, e l’accettazione del lavoro da parte di Tom sarà il primo passo verso una vita complessa fatta di false identità, inganni e omicidi.. Avidità e brama di lussuria? Narcisismo? Sete di vendetta, solitudine o amore disperato?
Ripley, La Recensione
Ci sono poche, pochissime serie che ti provocano una sorta di sindrome di Stendhal. Una di queste è “Ripley” di Steven Zaillian, maestro del cinema. Sì, quel Zaillian Oscar alla sceneggiatura per Schindler’s List di Spielberg e che ha scritto anche The Irishman e Gangs of New York di Martin Scorsese o American Gangster e Hannibal di Ridley Scott, per citarvene alcuni.
Un po’ noir, un po’ neorealista felliniano, sulla base del romanzo di Patricia Highsmith, questa serie ci immerge nell’America e nell’Italia degli anni ’60, durante il boom economico. È un film che elogia l’assoluta bellezza dell’estetica e delle forme, impregnando di densità e significato una sceneggiatura mai banale.
La Fotografia
La fotografia di Roger Elswit (premio Oscar per Il petroliere) è un capolavoro, alterna tinte monocromatiche a quelle forti e piene dei dipinti caravaggeschi, rispecchiando la vita turbolenta sia del pittore quanto del nostro protagonista (Tom Ripley, Andrew Scott). Discutibile chi non ha condiviso la scelta del bianco e nero, così come chi non lo giudica all’altezza del fascino retrò della pellicola, richiamando l’attenzione dei noir anni ‘40. È chiaro che si tratta di due tecniche di lavorazione differenti ed è lodevole il tentativo di riprodurre, seppur con una postproduzione digitale, un’atmosfera in grado di fermare lo spazio e il tempo in ogni singolo fotogramma.
Si toglie alla vivacità dei colori della costiera amalfitana per restituire al pubblico una bellezza dal sapore elegante e immortale. Le immagini di Tom Ripley e Dickie Greenleaf (Johnny Flynn) avvolti dallo splendore delle mura di un’antica locanda ad Atrani sulle note de “il cielo in una stanza” di Mina, è una fotografia d’arte che emoziona, perché omaggiare quel tipo di Italia fa bene al cuore.
…Lasciar parlare i silenzi
E poi le luci, la scenografia, la carta da parati anni ’60 presente nelle case in quegli anni, il posacenere di vetro con cui Ripley colpisce Freddie Miles (Eliot Sumner). E ancora il giradischi nella casa romana di Tom Ripley che riproduce “Quando, quando, quando” di Tony Renis, il bicchiere di cristallo in cui sorseggiare Whiskey e Scotch, il profumo di colonia misto all’odore del fumo impresso sulle giacche… Un’Italia meno folkloristica di quella, ad esempio, de “Il Talento di Mr Ripley” di Anthony Minghella, in cui un improbabile Fiorello cantava “Tu vuò fà l’americano” insieme a Jude Law, e più introspettiva, intensa, romantica.
Sicuramente Ripley non è una serie per chi ama mangiare il tempo. La bravura del regista sta proprio nel creare pochissime – ma cruciali – scene di azione e tantissima suspense, che Andrew Scott riesce a trasmettere magistralmente in ogni singolo gesto o espressione. Come in un girone infernale dantesco, così sono divise le otto puntate della serie, fino ad arrivare al punto massimo del climax che ci porta ad empatizzare con le sventurate vicende del nostro abile protagonista.
E così siamo anche noi nella barca con Tom Ripley quando prova a sbarazzarsi del cadavere di Dickie, sentiamo il suo sforzo quando tenta di scendere le scale con quello di Freddie Miles e avvertiamo la tensione durante i colloqui con l’imperscrutabile ispettore di polizia Pietro Ravini (Maurizio Lombardi).
Un encomio particolare per due protagonisti della serie. Il primo per Andrew Scott, che a differenza dei suoi precessori è riuscito ad incarnare tutta la turbolenza e l’instabilità inespressa di un personaggio come Tom Ripley. Misurato nei comportamenti, scisso nell’animo e inquietante nello sguardo, non cede e non mostra quasi mai alcun segno di debolezza. Al contrario di un tormentato e acerbo Matt Damon ne “Il talento di Mr Ripley” di Anthony Minghella, che invece manifesta tutte le sfumature di una personalità più insofferente e complessa, ossessionata dal sentimento per Dickie, nella serie Netflix reso più pudico, tacito e controverso.
Il secondo va a Maurizio Lombardi, che nei panni dell’ispettore Ravini incarna per aspetto, interpretazione e portamento il perfetto spirito del detective dei gialli/noir anni ‘40. Una recitazione essenziale, asciutta, autorevole ma dall’interpretazione intensa. Non è una scoperta il talento di Maurizio, che fa da perfetto contraltare a quello di Andrew Scott, in un “braccio di ferro” continuo tra due personaggi che si sfideranno, con fascino ed eleganza, fino alla fine.
Una bella e sofisticata espressione di cinema
Il connubio Usa – Italia sembra incastrarsi alla perfezione, sia per quanto riguarda la dualità linguistica (parte della recitazione è in inglese e parte in italiano) sia per il cast dei personaggi. Alla freschezza di Dakota Fanning (in scena Marge Sherwood, fidanzata di Dickie, nel film del ’99 interpretata da Gwyneth Paltrow) si alterna la maturità recitativa di una naturale ed efficacissima Margherita Buy.
Il bello delle piattaforme tv è che si può sempre ricominciare. E il bello di Ripley è che ti fa venir voglia di mandare indietro, mettere pausa, soffermarsi sui dettagli e i panorami infiniti. Prendere quel giradischi e sorseggiare un bicchiere, riascoltando all’infinito il disco di Mina. Una porta spalancata sul cielo, una bella e sofisticata espressione di cinema.