Jane Campion ha avuto il cinema come compagno di viaggio sin dal principio. Ella nasce a Wellington, in Nuova Zelanda, il 30 aprile 1954 da una famiglia di artisti(madre attrice; padre regista teatrale, come la sorella Anna, ma cinematografica ed anche sceneggiatrice). Dopo essersi laureata in antropologia ed aver studiato storia dell’arte in Europa, si avvicina al cinema e frequenta l’Australian Film and Television School a Sydney nei primi anni’80.
Prima donna a cui è stata assegnata la palma d’oro a Cannes e terza donna premiata con il premio Oscar per la miglior regia(insieme a Kathryn Bigelow e Chloè Zhao), è autrice di un cinema mai conciliante ed emotivo, che ha sempre avuto come fulcro le difficoltà e le sfumature dell’universo femminile. Al centro della scena vi sono donne oppresse ed in lotta contro figure e sistemi autoritari, attraverso una poetica tutt’altro che accomodante. Lo zero a zero è impossibile con lei.
In occasione dei suoi 70 anni, abbiamo ripercorso l’evoluzione della figura femminile del suo cinema a partire dal 1990 fino al suo ultimo film(uscito nel 2021).
Un angelo alla mia tavola (1990)
Tratto da tre autobiografie dell’autrice e poetessa neozelandese Janet Frame, esso è il secondo lungometraggio diretto da Jane Campion. La pellicola ripercorre l’infanzia e l’adolescenza di un’artista dal carattere introverso ed anticonformista: doti che, alimentate dal talento e dalla determinazione a diventare scrittrice, la porteranno a distinguersi nella sua comunità rurale isolata. Non mancheranno i momenti angoscianti, tra cui un tentato suicidio ed una conseguente, ed errata, diagnosi di schizofrenia che porterà la protagonista ad essere rinchiusa in manicomio e alla sottoposizione di svariati trattamenti di elettroschock.
Jane Campion evita subito la formula tradizionale, per l’epoca, del biopic, molto spesso tesa a raccontare storie di grandi personaggi ed a focalizzarsi sugli aspetti concreti della vita dei suoi soggetti e sul significato delle loro azioni e del loro impatto sul mondo. A ciò la cineasta neozelandese predilige la narrazione delle faccende quotidiane, delle ansie che logorano l’animo della tormentata artista, perfettamente rappresentata da una Kerry Fox in stato di grazia.
Palese è anche la ferma critica ad un sistema sanitario, assai deficitario sotto gli allora primi ministri Peter Fraser e Sidney Holland, che costituisce la perfetta metafora di una società incapace di comprendere la donna, il suo talento e i suoi turbamenti. La regia di Jane Campion, premiata a Venezia con il Leone d’argento, nonostante copra solo alcuni anni della vita di Janet Frame, riesce perfettamente a delineare le sfumature del personaggio ed a catturarne l’essenza, senza inciampare nel didascalico.
Lezioni di piano (1993)
Probabilmente il film più famoso ed importante di Jane Campion. La vicenda si svolge nel 1853 ed ha come protagonista la pianista muta Ada McGrath(Holly Hunter) la quale, con la sua giovane figlia Flora(Anna Paquin), parte dalla Scozia per la Nuova Zelanda per sposarsi, contro la sua volontà , con Alisdair Stewart(Sam Neill), proprietario terriero locale. Dopo essere sbarcate, vengono accolte da Alisdair che con i suoi uomini prende i bagagli delle protagoniste per portarli nella nuova dimora.
Tranne il pianoforte di Ada, che viene lasciato sulla spiaggia poichè richiederebbe un ulteriore viaggio, con conseguenti spese; tale strumento è fondamentale per Ada, la quale si serve dello strumento, e del linguaggio dei segni mediato dalla figlia, per comunicare ed esprimere sentimenti ed emozioni. Incapace di amare Alisdair, Ada stringerà un legame con il suo socio George Baines(Harvey Keitel), il quale prenderà il pianoforte e chiederà ad Ada delle lezioni di piano. Da qui partiranno una serie di eventi che cambieranno la loro vita.
La genialità di Jane Campion, premiata con l’Oscar per la miglior sceneggiatura e con la Palma d’oro a Cannes(prima donna ad ottenere tale riconoscimento), risiede nello saper sfruttare il mutismo di Ada per denunciare la condizione della donna, impossibilitata a far valere la propria voce in una società patriarcale, dove al marito non disturba che la donna stia in silenzio e il bisogno di lei di esprimersi viene addirittura scambiato per follia.
L’assenza della voce della protagonista simboleggia anche la mancanza di un’adeguata e reale rappresentazione, delle donne nell’industria cinematografica (e nei media in generale).
Impossibile poi non soffermarsi sulle performances attoriali. Holly Hunter, premiata agli Oscar e Cannes, effettua la prestazione attoriale della carriera per come mette in scena le emozioni di Ada, creando un personaggio assai sfumato, tanto fragile quanto caparbio e fermo. Per far ciò l’attrice sfrutta al massimo il potere dello sguardo e della gestualità , dando in questo modo allo spettatore di comprendere ogni desiderio e delusione provati, senza dover mai ricorrere a reazioni eclatanti.
Assai interessante è anche lo sfruttamento della figura di George Baines, utilizzata da Jane Campion per capovolgere luoghi comuni e stereotipi: Baines, anche se inglese di nascita, è ormai un maori a tutti gli effetti e rappresenta l’esatto opposto di Alisdair: da un lato, modi rozzi ma anche sensibilità ed empatia non comuni. Una figura assai assimilabile al cinema di John Boorman. Indimenticabile la colonna sonora di Micheal Nyman.
Un film iconico ancora oggi e che sembra rifiutarsi di sottomettersi alle pieghe del tempo, rimanendo sempre verde.
Ritratto di signora (1996)
Dopo il grande successo di Lezioni di Piano, Jane Campion decide di portare su schermo Ritratto di signora, celeberrimo romanzo di Henry James. La storia ha come protagonista Isabel Archer(Nicole Kidman), una donna anticonformista che rifiuta categoricamente di sposarsi per mantenersi indipendente. Dopo essere divenuta ricca per la morte di suo zio, la sua libertà verrà messa a dura prova dalle macchinazioni di Madame Merley(Barbara Hershey) e dal subdolo Gilbert Osmond(John Malkovich).
Da subito emergono le profonde differenze che distinguono Lezioni di Piano da questa pellicola. Come la figura di Ada McGrath simboleggia una resistenza muta e ferma ad un mondo maschile prevaricatore ed in grado di disporne a proprio piacimento, Jane Campion preferisce concentrarsi ed indirizzare lo sguardo dello spettatore sulle decisioni di Isabel e di come l’innocenza, la libertà e la vitalità di una donna possano essere facilmente intrappolate da personalità subdole.
L’autrice neozelandese preferisce mettere da parte l’ambiguità dei personaggi, a vantaggio di un’analisi glaciale, nella forma registica in particolare, di come le regole sociali siano ciniche e feroci; fatte su misura per impedire alla donna di essere indipendente, di come il matrimonio porti la donna a passare da essere umano a mera proprietà e di come le stesse donne siano complici di tale status quo.
Tale prospettiva delle rapporti umani è alla base anche della commedia sentimentale coeva Ragione e Sentimento, diretto da Ang Lee e sceneggiato da Emma Thompson, che però pone come nucleo della storia il denaro e come la necessità di questo sia il motore delle relazioni umane.
A supporto di ciò vi è lo straordinario prologo del film, il quale mostra ritratti contemporanei di varie donne, che sottolinea con poesia e malinconia come i costumi e modi di esprimersi contemporanei possono essere cambiati ma le aspettative e l’occhio della società è ancora, ahinoi, lontano dall’essere abbattuto.
Il cast è di primissimo ordine: oltre al trio principale già citato all’inizio, vi sono anche Shelley Duvall(Tre Donne; Shining), JohnGielgud(Assassinio sull’Orient Express, Giulio Cesare) e i giovani Viggo Mortensen e Christian Bale.
Come Lezioni di Piano, Casa Howard o Quel che resta del giorno(gli ultimi due del grande cineasta James Ivory ), Ritratto di signora rimane,a nostro giudizio uno dei film in costume più interessanti degli ultimi trent’anni, un saggio di come fare un cinema elegante ed introspettivo. Non possiamo fare altro che consigliarvelo caldamente.
Dopo aver trattato delle storture oppressive della società ottocentesca, Jane Campion è passata a trattare di quella attuale, dando vita a un film tutt’oggi abbastanza controverso ma con vari spunti interessanti: Holy Smoke. Durante un viaggio di scoperta nell’esotica India, Ruth Barron(Kate Winslet) cade sotto l’influenza di un carismatico guru religioso e decide di stabilircisi per poter vivere in un Ashram(luogo dove si pratica yoga, meditazione e si vive a contatto con la natura).
I suoi genitori, disperati perchè credono che sia stata plagiata, assumono PJ Waters(Harvey Keitel),un de-programmatore di mezza età specialista nel recuperare affiliati di sette religiose, perchè possa riportarla sulla retta via. Perchè il programma abbia successo, i due dovranno passare insieme tre giorni completamente isolati nel mezzo del deserto australiano.
Come nei suoi precedenti lavori, Jane Campion esplora il tema del desiderio sessuale, di come la volontà della donna non sia mai completamente libera(lo è solo quando sia conforme ai paradigmi sociali ed a quelli familiari) ma anche dell’impossibilità dell’uomo di poterla plasmare a proprio piacimento. Al contrario, sarà la virilità dell’uomo a soccombere.
Assai interessante è l’utilizzo dei corpi effettuato da Jane Campion, per poter far risaltare la vitalità e l’energia di Ruth che non potrà che uscire vincitrice nello “scontro” con PJ Waters, il quale non solo perderà ma sarà anche messo in ridicolo da Ruth. Si potrebbe azzardare la sovralettura per cui Harvey Heitel non sia altro che la versione grottesca di Gustav Von Aschenbach, protagonista del capolavoro di Luchino ViscontiMorte a Venezia, il quale fallirà miseramente nel tentativo di stare al passo di una giovinezza che non potrà mai più riavere.
Al netto di scelte cromatiche assai forti, di dialoghi non sempre irresistibili e di una sperimentazione formale che inevitabilmente può far storcere il naso, Holy Smoke è un film non privo di interesse e perfettamente inserito nella poetica di un’autrice a tutto tondo come Jane Campion.
In the cut (2003)
Se Holy Smoke è stato un insuccesso di incassi e divisivo per la reazione del pubblico, è andata peggio per In the Cut, il quale rappresenta anche il peggior insuccesso di critica per Jane Campion. La storia ha come protagonista Frannie Avery(interpretata da Meg Ryan), un’insegnante di letteratura americana attiva frequentante dei luoghi più malfamati e pericolosi di New York, perchè impegnata a lavorare alla stesura di un dizionario di slang di strada. Nel frattempo il quartiere è sconvolto da un efferato omicidio, su cui indagherà il detective Malloy(Mark Ruffalo).
Etichettato troppo presto come un banale thriller erotico generico e a buon mercato, In the Cut è uno dei film più stratificati della Campion. La regista neozelandese prende i topoi del genere thriller, profondamente maschili, per capovolgerli e trasformarli in un percorso tortuoso dove la donna indaga sulla natura del proprio desiderio sessuale per poter essere finalmente libera.
Ciò è riscontrabile sulle tecniche di regia adoperate da Jane Campion, che nella prima parte ricorre a svariati primissimi piani e close-up, che fanno percepire allo spettatore come la protagonista sia prigioniera di paure ed incertezze di vario genere, per poi far trionfare nel terzo atto la profondità di campo, segno di libertà conquistata.
Sugli scudi l’interpretazione azzeccata di Meg Ryan, che porta in scena una donna ferita ed incerta ma mai vittima. Sa come muoversi nel mondo e sa salvarsi da sola. Nell’assecondare il desiderio, principalmente quello sessuale il quale è teso al raggiungimento di una vera e propria autoconsapevolezza, Frannie porta alla luce i propri incubi per poterli sconfiggere e modificare in modo concreto e definitivo la propria vita.
Uno dei thriller erotici più interessanti degli anni’00.