“Sei fratelli” la recensione del film di Simone Godano
Mercoledì primo maggio arriva nelle sale italiane “Sei fratelli”, l’ultima opera cinematografica di Simone Godano. A tre anni dal riuscito “Marilyn ha gli occhi neri” il regista torna sugli schermi con una dramedy dal sapore monicelliano. Ecco la nostra recensione.
La scena iniziale si apre in realtà con la chiusura di un sipario. Quello della vita di Manfredi Alicante (Gioele Dix) malato da tempo, che decide di buttarsi dall’ultimo piano dell’ospedale francese in cui era ricoverato. Questa uscita di scena del “Deus ex machina”, porterà all’inevitabile incontro – scontro di sei fratelli Marco, Guido, Leo, Luisa, Gaelle e Mattia (Riccardo Scamarcio, Adriano Giannini, Gabriel Montesi, Valentina Bellè, Claire Romain e Mati Galey) che per anni hanno vissuto come dei perfetti sconosciuti. E se la convivenza forzata si trasformerà in consapevolezza delle proprie diversità, riporterà anche alla luce l’intuizione di un affetto sepolto sotto strati di orgoglio e di pudore.
Sei Fratelli, La Recensione
“Il tempo è un’illusione, non ricordo chi l’ha detto” è la voce fuoricampo di Gioele Dix, che apre il primo atto di questa commedia sull’intensità e la complessità dei rapporti. L’io narrante, strumento tendenzialmente anti cinematografico, in questo caso è efficace perché, come sottolineato dall’attore in conferenza stampa al cinema Barberini di Roma, accompagna con delicatezza e incisività le vicissitudini della famiglia Alicante.
In molti hanno visto un riferimento a Parenti Serpenti di Mario Monicelli e a La Famiglia di Ettore Scola, così come aleggia sulle interpretazioni degli attori la magnifica presenza delle grandi generazioni precedenti come Giancarlo Giannini e Vittorio Gassman. Un omaggio a Mario Monicelli è anche nella prima sequenza del film, in cui il regista decide di far “uscire di scena” il personaggio principale attraverso il suicidio.
Tra ironia e profondità, il giusto equilibrio
Nella commedia si alternano momenti di sana ironia a quelli più profondi di dialogo introspettivo. Simone Godano afferma di volersi discostare dalle dramedy italiane a cui siamo abituati, essendo stato paragonato in sede di conferenza stampa alle commedie di Gabriele Muccino. Godano sembra dunque voler dare un volto nuovo a questo tipo di commedia, eliminando quell’isteria ed eccessività interpretativa tipica dei personaggi mucciniani. E’ una “scrittura nuova” come affermato in conferenza stampa dall’ attore Riccardo Scamarcio, che mira a far emergere l’imperfetta verità delle cose.
Fotografia dal sapore nostalgico e malinconico
La scena si divide tra Italia e Francia e le intuizioni registiche sono buone, se non fosse che in alcuni momenti si ha un po’ la sensazione di perdersi e che il meccanismo si inceppi, lasciando intendere, forse volontariamente, tutta la fallibilità della macchina e dell’essere umano. I momenti dei litigi e di chiarimento sono probabilmente tra quelli più riusciti, perché è in quei frammenti che vengono alla luce la verità dei contrasti e la complessità delle relazioni umane.
Se da una parte dunque si ha la sensazione di “non oltrepassare mai la linea”, “Sei fratelli” rimane un film che tiene a mostrare tanto la tecnica quanto il cuore (da notare la macchina a mano del regista, che diventa quasi un altro personaggio osservante, immerso nelle dinamiche familiari). Costruendo una scena che segue le tonalità della fotografia di Guillaume Deffontaines, questa viene spesso avvolta da un fitto strato di malinconia e da una nostalgia dalle tonalità sbiadite, da commedia francese.
In questo ritratto finale dove i sei fratelli si ritrovano a fare il “bagno della liberazione” nel mare non limpido della vita, sorge spontanea una domanda: cos’è che li tiene insieme e li fa rimanere? Probabilmente il desiderio di radici, di sentirsi appartenere a qualcosa o qualcuno. Di essere amati a prescindere, nonostante la rigidità delle incomprensioni. Probabilmente l’eterna ricerca, per citare Gioele Dix in conferenza stampa, della presenza nell’assenza del padre, come Ulisse ha fatto con Telemaco nell’Odissea.
E se il lieto fine a 360 gradi non è previsto perché “siamo in un mondo reale, bisogna sapersi accontentare”, questi personaggi riescono comunque a scostarsi dalla staticità dell’immagine e del ruolo familiare che gli altri gli attribuiscono, lasciando emergere nel cinema così come nella vita, parafrasando Deleuze, un po’ di possibile.