La pena di morte è un provvedimento penale che, ancora oggi, vige in diversi stati del mondo, compresi quelli considerati democratici. Nonostante sia stata spesso condannata moralmente e considerata un provvedimento arcaico e disumano, la pena di morte continua a far discutere per la sua utilità. Gli stati dove è ancora vigente sono distribuiti su tutti i continenti, ad eccezione dell’Europa, dove l’ultimo stato ad aver abolito la pena di morte è stato il Regno Unito nel 1998, comunque molto recentemente.
La sensibilizzazione dell’opinione pubblica europea sulla pena di morte è stata avviata grazie alla pubblicazione del trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria nel 1764. L’opera influenzò significativamente le considerazioni sulla pena che, secondo l’autore:
“sarebbe un’inutile e fuorviante tortura e potrebbe essere destinata ad innocenti. Uno stato che vuole essere giusto non ha diritto a punire utilizzando strumenti simili, ma deve essere risarcito proponendo punizioni socialmente utili e tese al recupero, non alla repressione.”
In Italia è stata abolita con l’entrata in vigore della Costituzione il 1 Gennaio del 1948, dopo essere stata reintrodotta durante il ventennio fascista, in quanto era stata già abolita nel 1888. Uno degli stati occidentali ad adoperare odiernamente la pena di morte sono gli Stati Uniti d’America, con delle dovute precisazioni: la maggior parte degli stati ha, con delle deleghe, abolito la pena nonostante sia presente nel loro ordinamento. Alcuni, pochi, ancora la praticano, come il Texas. Ogni stato la adopera arbitrariamente in base al reato ascritto ed alla sua gravità. Sommariamente, nella maggior parte dei casi, si tratta di omicidi.
Arte, letteratura e, ovviamente, il cinema hanno da sempre offerto interessantissimi spunti di riflessione su questa tematica, indagando sulle ragioni per le quali ancora vige la pena di morte e analizzando le conseguenti influenze psicologiche di condannati, familiari, conoscenti e opinione pubblica. Così, ecco sette film che hanno trattato la pena di morte nella cinematografia. Buona lettura.
7 film sulla pena di morte:
Dead Man Walking – Condannato a morte; Tim Robbins (1995)
Partiamo nel nostro viaggio con questo noto film che già nel titolo espone contenuto e trama: Dead Man Walking. Il film con Sean Penn e Susan Sarandon, premio Oscar per questa pellicola come Miglior Attrice Protagonista e, inoltre, moglie del regista Tim Robbins, ottenne grandi riconoscimenti di critica e pubblico a livello internazionale, grazie all’intenso lavoro svolto da regista e cast, attivisti in prima linea proprio contro la pena di morte.
Matthew Poncelet (Sean Penn), a pochi giorni dalla sua esecuzione, fa la conoscenza di suor Helen Prejean (Susan Sarandon). L’uomo è accusato dell’omicidio di una giovane coppia, avvenuto con una ferocia e violenza inaudita. Matt si professa innocente, nonostante sia a pochi giorni dal giorno della sua esecuzione. I suoi comportamenti e le sue dichiarazioni manifestano e confermano la sua indole violenta e razzista, aggravando la situazione.
Helen, combattuta sul credere o meno alle dichiarazioni del carcerato, cerca di prendere tempo per un rinvio a giudizio. La sua carità cristiana è vista come un tentativo di schierarsi dalla parte di Matt e l’opinione pubblica, consistente nei familiari delle vittime e nei familiari dello stesso condannato, pressa nei suoi confronti. Solo la bontà e perseveranza di Helen faranno venire a galla la verità, concedendo il perdono più grande: quello divino.
La pellicola è un perfetto manifesto, quasi documentaristico, sulle dinamiche conseguenti ad una condanna per pena di morte. Matt ha come unico sfogo la sua interlocutrice che, inevitabilmente, diventa il parafulmine per il dolore e la frustrazione delle persone che turbinano intorno a questa tragedia. La forza di volontà di Helen si contrappone allo stato di abbandono di sentimenti di pietà e carità del resto dei protagonisti, giustamente provati a furiosi con Matt per quello che ha tolto loro.
In Dead Man Walking, come nella maggior parte delle storie che vedremo, perdono tutti: perde Matt; perdono i familiari delle vittime e perde lo Stato inteso come istituzione pubblica. Non Helen. Lei ottiene il dono più grande di tutti, cioè la verità. La confessione di Matt è il premio per la costante fede, non con lo scopo di salvare il condannato dal suo destino, ma per redimere la sua anima e prendere coscienza delle sue azioni. Il rifiuto della negazione e l’accettazione della sua condanna a morte.
La morale della pellicola, inoltre, risiede nel palesare come le stesse istituzioni si abbassino al livello delle tremende azioni di Matt, trasformandosi a sua volta in quello che cerca di combattere: l’omicida. In barba ai principi di democrazia, lo stato applica quello che cerca di eliminare, nel modo più semplice e saziante per l’opinione pubblica. Ma quando la pena di morte cala sul condannato e tutto finisce cosa rimane? Come ci suggerisce la fine del film, rimane la volontà di elevarsi al di sopra del rancore e della rabbia, tramite il perdono.
Giustizia è stata fatta, ma chi vince? Come abbiamo detto, nessuno.
Il Miglio Verde; Frank Darabont (1999)
Il prolifico sodalizio tra Stephen King e Frank Darabont permise la realizzazione del film Il Miglio Verde, tratto proprio dal romanzo omonimo dello scrittore originario del Maine. Il titolo fa riferimento al percorso che devono compiere i condannati nel braccio della morte nel carcere di Cold Mountain, il cui pavimento è proprio di colore verde. La pellicola fu un enorme successo e si confermò come uno dei manifesti più riusciti sulla tematica riguardante la pena di morte.
Paul Edgecombe (Tom Hanks) ripercorre il viale dei ricordi quando, mentre svolgeva il ruolo di guardia carceraria, fece l’incredibile conoscenza del condannato a morte John Coffey (Michael Clarke Duncan). Nel 1935 due bambine vennero violentate e uccise. Sul luogo del delitto fu ritrovato un gigantesco afro americano in preda alla disperazione che fu arrestato perché ritenuto colpevole. Portato nel carcere dove lavora Paul, John inizia a fare mostra di poteri incredibili.
La vita nel braccio della morte è, come lecito pensare, durissima. Tra carcerieri e condannati si innescano dei rapporti quasi di amicizia, nonostante tutti siano a conoscenza dei propri destini. Non tutti, però, dimostrano umanità nei confronti dei carcerati.
In un mix di realtà e magia, Il Miglio Verde offre una visione spirituale e religiosa sulle conseguenze della pena di morte. Il dono di assorbire i “mali del mondo” da parte di Coffey viene compreso solo da pochi, compreso Paul. Nonostante ciò, l’omone finirà ugualmente sulla sedia elettrica, in una scena che è un misto di strazio e tenerezza per la fine dell’uomo, chiaramente innocente.
Riprendendo quanto detto dal Beccaria, uno dei contro della pena di morte è proprio il suo rischio di non avere la certezza di chi si sta condannando. Coffey è il classico capro espiatorio, l’uomo che si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, nel tentativo di salvare le due bambine. Spesso la legge ha una certa “fretta” nel ricercare un colpevole, sospinta da pressioni esercitate dal contesto che si ha intorno.
Un così grande bene per il mondo intero trattato con lo stesso metodo di veri assassini, come Wild Bill (Sam Rockwell), vero mostro della storia. La punizione divina per Paul è quella di vivere a lungo, vedendo morire tutte le persone amate mentre lui continua a vivere in salute. Quando racconta la sua storia, confessa di avere 108 anni. Una dura legge del contrappasso: come ha visto morire tante persone accompagnandole per il Miglio Verde, così gli toccherà fare per il resto della sua vita.
Viene evidenziata la disumanità della pena di morte nella figura della guardia Percy Wetmore (Doug Hutchison), insopportabile e sadico aguzzino dei carcerati, emblema della crudeltà rappresentata dalla sedia elettrica, mezzo di esecuzione che esiste ancora ai giorni nostri, considerato come indolore per i condannati. Il film Il Miglio Verde lascia lo spettatore con l’amaro in bocca per la sorte dei suoi protagonisti, le cui storie sono più veritiere di quanto ci si possa immaginare.
M – Il Mostro di Dusseldorf; Fritz Lang (1931)
Pellicola solo apparentemente molto datata, M-Il Mostro di Dusseldorf offre una visione molto moderna e distopica sulla presa di posizione in merito alla pena di morte. Il film è ispirato a dei fatti veri avvenuti in Germania nel decennio precedente all’uscita del film, affermandosi come un antesignano del genere noir. Alla regia, il famoso regista di Metropolis, Fritz Lang.
Un maniaco è responsabile dell’adescamento e uccisione di otto minorenni. La polizia brancola nel buio e, al ritrovamento della nona vittima, le forze dell’ordine optano per una decisione disperata: scendere a patti con la criminalità organizzata, già messa sotto pressione dalle continue retate, per proporre una tregua affinché si trovi il terribile mostro responsabile degli omicidi. In un avvincente corsa contro il tempo, entrambi gli schieramenti si mettono alla ricerca dell’assassino.
Verrà trovato dalla malavita, grazie ad un mendicante che disegna un “M” sulla sua giacca, dopo averlo pedinato. Condotto in un luogo isolato, un’improvvisata giuria di criminali emette il verdetto: condanna a morte.
Prima di tutto, bisogna calarsi nel contesto della Germania degli anni ’30: il neonato partito nazista sta per compiere la sua ascesa tra le maglie della popolazione. La Repubblica di Weimar, il governo dello stato in seguito alla sconfitta della Prima Guerra Mondiale, sta perdendo i suoi consensi, soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione che vogliono un netto cambio di rotta dopo l’umiliazione subita al termine della Grande Guerra nel 1918 e il conseguente indebolimento della Germania.
In questo clima di dissenso, si insinuerà il partito nazista. Lo stesso partito che non apprezzerà questo film, giudicato troppo democratico. La pena di morte inflitta al Mostro dal tribunale di criminali viene prontamente stoppata dall’intervento della polizia, che riesce a scovare il luogo dove sta avvenendo il processo. Non potendo essere giudicato secondo le leggi dell’epoca, il Mostro viene condotto in commissariato, per subire un processo equo per i suoi crimini.
È palese come Fritz Lang abbia l’intento di dimostrare come l’opinione pubblica non abbia potere di decisione universale, ma sia comunque necessario sottostare alla legge. Anche quando si tratta di processare un assassino così violento e disgustoso. Lo Stato non deve scendere allo stesso livello del criminale contro il quale si oppone, optando per poterlo giudicare nelle sedi opportune e con le consuetudini che l’evoluzione della società ha portato. M-Il Mostro di Dusseldorf lascia un messaggio importante, non condivisibile da tutti magari, ma molto moderno nell’ottica che si ha ai giorni nostri in merito alla pena di morte.