Ghostbusters sta per notare nelle sale italiane con il quinto film del Franchise e quarto della saga principale, Ghostbusters: Minaccia Glaciale (in originale, Ghostbusters:Frozen Empire) cercando di catturare nuovamente la magia di quel film che ha fatto la storia, affiancando ai personaggi di Ghostbusters: Legacy (Ghostbusters:afterlife) gli acchiappafantasmi protagonisti di quell’assoluto successo.
Ghostbusters: Minaccia Glaciale, la trama
La famiglia Spengler lascia Summerville per tornare a New York, nella caserma dei pompieri in cui tutto ha avuto inizio. Ma la New York è molto diversa da una piccola città dell’Oklahoma, e Phoebe finisce per mettersi nei guai, rischiando il suo posto nel team. Nel frattempo, un nuovo nemico inizia a muoversi dietro le quinte, minacciando non solo New York ma il mondo intero con una nuova Era Glaciale.
Ghostbuster: Minaccia Glaciale, la recensione
Da questo momento in poi ci saranno spoiler. Siete state avvertiti.
Partiamo dal difetto più immediato ed evidente: non c’è un briciolo di originalità in questo film. Non c’è un minuto su centoquindici in un cui non è possibile prevedere esattamente quello che succederà dopo.
In realtà il copione fornisce più di un punto su cui poter lavorare. Sarebbe stato interessante, per esempio, approfondire il rapporto tra Gary ed i giovani Spengler, le difficoltà di diventare genitore di due adolescenti; qualche tentativo viene fatto, maPaul Rudd deve fare Paul Rudd e quindi non è concesso al suo personaggio di prendersi sul serio abbastanza da dare al film un minimo di ancora emotiva. Non solo, il film tocca un tema che sarebbe stato bello analizzare per bene: la “gabbia” in cui i ghostbusters scaricano i fantasmi dopo averli catturati è piena, ed è attiva dal 1984. Oltre a questo, sappiamo che i fantasmi possono passare oltre, ritornando a far parte del grande tessuto dell’universo.
Si aprono allora notevoli prospettive per un film, analisi sulla stessa etica dei ghostbusters, sul fatto che quelli che noi vediamo come spettri erano una volta persone, ora intrappolate in questo mondo tra i mondi e l’essere catturati gli impedisce di andare oltre. Come devono comportarsi quindi gli acchiappafantasmi? Niente di tutto questo entra a far parte della narrazione, che impedisce la risoluzione del primo punto ed ignora completamente il secondo.
Ma, in un film chiamato Ghostbusters, come sono gli spettri? Ne vediamo ben 6: il drago delle fogne, Melody, Slimer, i mini Stay Puft Mashmallow man (che non hanno alcun motivo di essere presenti nel film), lo spettro della libreria e Garraka. Di questi, Melody è praticamente l’equivalente di un fantasma della forza di Guerre Stellari, Slimer e lo spettro della libreria vengono dal primo film, i marshmallow men da Afterlife e il drago delle fogne si vede a malapena.
Garraka, l’unico con cui spendiamo un po’ di tempo (sebbene sia necessario far notare come,a dispetto di quello che il Trailer lascia immaginare, il suo impero di ghiaccio dura per circa quindici minuti di film e quello si vede nel trailer è praticamente quello che si vede nel film), ha un design che sa di già visto. Non brutto,ma non memorabile e chi ha visto la serie TV Sleepy Hollow vedrà in lui il cugino rachitico di Moloch. La storia di Garraka viene fatta risalire alle civiltà pre-sumere, e sarebbe stato interessante vederne incorporato qualche elemento nel suo aspetto, ma niente.
Altro grande difetto, il film si trova a giostrare la bellezza di 14 personaggi principali, molti dei quali assolutamente superflui. Podcast, Lucky, Trevor sono i casi più lampanti, al punto tale che ogni tanto mi chiedo se siano veramente parte del cast o se gli attori si siano limitati a passare di là mentre le telecamere giravano e nessuno ha pensato di rifare la scena: possiamo rimuoverli dal film e questo non cambierebbe di una virgola. Trevor fa qualche siparietto con Slimer che non porta assolutamente a nulla e non dice assolutamente nulla mentre gli altri due si limitano ad esistere, dire qualche battuta, e tornare a sparire quando il film deve portare avanti la storia.
L’avere a che fare un cast così vasto impedisce di dedicare il giusto tempo a ogni personaggio e così anche quelle scene che dovrebbe avere peso sembrano forzate, inserite per necessità di trama e non per naturale progressione.
Il caso più lampante riguarda Phoebe (una comunque capace McKenna Grace) e Melody (interpretata da Emily Alyn Lind a cui è stato sicuramente detto di recitare come Audrey Plaza in Parks and Rec, ma sotto valium), che condividono un rapporto strutturato in tutto e per tutto come una storia d’amore (con tanto di cliché quali “was any of it real?”), senza però il peso del marchio, la classica scelta vigliacca che consente di strizzare l’occhio al fandom queer senza alienare gli elementi conservatori.
Per dire in poche parole qualcosa che ne merita ancora meno, Phoebe interagisce con lei un gran totale di due volte prima di decidere di rischiare la vita separando il proprio spirito dal corpo dando così il via all’apocalisse.
Il film fa ovviamente i salti mortali per ignorare i difetti di Phoebe, tra cui vale la pena evidenziare un marcato (e velatamente sociopatico) disinteresse al danno collaterale che tende a causare. Lo spettatore con un minimo di senso critico fa fatica a non dare ragione a Walter Peck quando questo obietta con forza all’idea di avere una quindicenne che gira per la città con l’equivalente di un reattore nucleare alla schiena, un fucile protonico in mano e una scarsa considerazione per l’incolumità di qualsiasi cosa osi finire tra lei e il suo bersaglio.
Detto questo, si tratte di colpe assolutamente imputabili alla sceneggiatura e non hai personaggi, che fanno quello che possono col materiale che gli viene dato.
Dan Aykroyd mette genuino entusiasmo nel film, rivestendo i panni di Ray Stanz come se non avesse mai spesso, così come Ernie Hudson. Bill Murray fa poco più di un cameo (e interpreta poco più di sé stesso) e ci regala un momento di perplessità quando, per una scena, indossa degli occhiali da sole, che scompaiono un paio di inquadrature dopo. La vera star del film è Kumail Nanjiani nel ruolo del maestro piromante (firemaster) Nadeem Razmaadi, una recitazione divertente e naturale che non avrebbe sfigurato al fianco dei protagonisti nell’originale del 1984. Altro grande è Patton Oswald, un ruolo breve che viene interpretato con capacità.
In un’intervista, Kumail Nanjiani ha rivelato come il film sia stato ispirato alla serie animata The Real Ghostbusters. Sebbene personalmente lo trovi più vicino allo spin-off “Extreme Ghostbusters”, il film dà, in effetti, la sensazione d’essere, più che un prodotto originale, un adattamento condensato di un arco narrativo animato, al punto che si può immaginare con facilità dove ogni puntata sarebbe finita.
Da un punto di vista tecnico non ci sono rimproveri da fare al film: la narrazione è coerente, le inquadrature hanno senso, il sonoro c’è, recitato incredibilmente meglio del reboot del 2016.
Il film è innocuo. Non è offensivo, non cerca di rimpiazzare i personaggi storici presentando delle alternative moderne che gli sono superiori in tutto. Da un certo punto di vista, questo è forse l’elemento più innovativo del film: personaggi maschili degli anni ‘80 che non sono diventati dei falliti, ma professionisti di successo nei rispettivi settori. Ma mi viene alquanto difficile dare un giudizio positivo solo perché il film ha raggiunto un livello minimo di competenza.
C’è stata molta negatività intorno al film, che è stato definito addirittura il peggiore del franchise. Un appellativo assolutamente esagerato in un franchise che comprende un insulto al cinema come il reboot del 2016. Qualitativamente il film è pari a Legacy, ma manca però di quell’elemento emotivo che ha fatto risonare Ghostbusters:legacy con i fan, il tributo ad Harold Ramis.
In definitiva si tratta dell’ennesimo film che non è brutto, che non offende, ma che lascia assolutamente il tempo che trova, classificandosi pienamente tra i film senza infamia e senza lode.