Flaminia è il primo film scritto, diretto e interpretato da Michela Giraud, in sala dall’11 aprile 2024 distribuito da Vision Distribution e prodotto da Eagle Original Content e Pepito Produzioni in collaborazione con Vision Distribution e con Prime Video
Flaminia, la Trama
Flaminia De Angelis (la stessa Giraud) è una ragazza di Roma Nord, con tutto quello che comporta: un po’ cafona, un po’ sbruffona, ricca (o anzi, arricchita) in procinto di sposare il bell’Alberto, figlio di un diplomatico, abbastanza innamorato e per niente fedele, che per la mamma di lei (Lucrezia Lante Delle Rovere) rappresenta il passaggio dal mondo dei “poveracci” a quello dell’altissima aristocrazia.
Ma la routine della famiglia De Angelis viene travolta dall’arrivo di Ludovica (Rita Abela), figlia di primo letto del papà (Antonello Fassari), trentenne nello spettro autistico, che vive da anni in comunità e deve passare qualche giorno in famiglia.
Stand-up ovation
Se fino a qualche tempo fa il trasloco dal piccolo al grande schermo rappresentava la semplice -e sciatta- riproposizione di gag e tormentoni televisivi, da un po’ qualcosa è cambiato.
Quasi in concomitanza con quella che sembra una piccola grande rivoluzione del box-office (con Miyazaki che vince su Pieraccioni), i comici della tv progettano film che hanno un senso e un ritmo anche in una dimensione cinematografica: ed ecco in questa direzione anche la stand-up comedian Michela Giraud, che debutta con un film inaspettato ma non troppo. C’è qualcosa di vanziniano -nel senso migliore e antropologico del termine- nell’incipit di Flaminia: ovvero la descrizione facilona di un popolino brillocco, inabissato nelle rapide del lusso ma fortemente ancorato ad una volgarità esistenziale senza uscita.
Tra chiacchiere da parrucchiere, diete sciatte e ignoranti, namedropping di quartiere, emerge un immaginario sciocco che mette in evidenza un vuoto pneumatico: che girerebbe a vuoto se ad un certo punto il film non subisse una svolta, lieve nei toni ma incandescente nel contenuto.
L’arrivo di Ludovica non solo sconvolge i piani di Flaminia, ma inizia a scheggiare quel mondo patinato e insignificante in maniera consapevole e mai banale: fino al punto di svolta narrativo, un dialogo in macchina che apre gli occhi alla protagonista nel momento in cui le ricorda il suo passato di emozioni vere e dolori reali.
Non c’è niente di semplificato nel percorso di presa di coscienza di Flaminia: perché la Giraud non ha paura di mettere in scena la disabilità di Ludovica senza filtri, tra urla sgraziate, abissi di vergogna, piccole umiliazioni.
È in questo senso che Flaminia stupisce: perché dal film patinato che si apre sulla comicità prorompente e molto fisica della regista, si scivola con facilità in un piccolo spaccato di verità, intrisa di quelle piccole tristezze che screziano quel cromatismo vivace di cui è fatta l’esistenza del personaggio principale.
Attori e regista per un emozione unica
Non che Michela Giraud sia mai stata banale, dalle battute fulminanti ai sottotesti sociali: ma Flaminia ha una spinta in più, che risiede nel cuore di un film che si avverte sentito, sfrontato, impudico nel volere agganciarsi ad una realtà quotidiana che spesso si mette i margini o, al meglio, si edulcora con tonalità di carinerie che rifiutano di puntare lo sguardo sul dolore più vero, quello sottile che si inietta sotto pelle attraverso una parola, uno sguardo, un gesto, un ricordo.
Tra intuizioni alte e scrittura sicura, Flaminia stupisce per emotività e sincerità di racconto
Su tutto, poi, c’è l’efficacia di un cast diretto al meglio: se Fassari e Della Rovere sono una sicurezza del genere, Rita Abela mette a frutto la sua larghissima esperienza teatrale e quella strettamente cinefila (tra SaverioCostanzo e Pupi Avati).
Ma è poi lei, la Giraud, a stupire per eccesso: come attrice i suoi silenzi non sono mai vuoti, i suoi sguardi sempre mirati, il suo ritmo sempre perfetto, i sorrisi che si aprono e illuminano la scena incuranti di tutto il resto, evitando accuratamente una recitazione in overacting o anzi usandola per prosperare ed emozionare nei contrasti, con una sottigliezza interpretativa non da poco.
Pesca poi, inconsapevolmente o meno non importa, nel cinema alto con intuizioni non originali ma ottimamente impiantate (i sottotitoli nei dialoghi con Saverio Raimondi riecheggiano il miglior Woody Allen di Io & Annie), racconta un rapporto perso e ritrovato tra rimosso e rimorso con gentilezza e delicatezza; sa far fluire la ferocia della sua maschera alla malinconia dell’autrice; e alla fine sa come negare un vero finale senza scontentare nessuno (Flaminia si sposa o torna con il suo ex? Ludovica resta in comunità? Flaminia la segue?)
Certo, forse come dietro la macchina da presa ha qualche incertezza o qualche mollezza rispetto alla sicurezza di scrittura: ma diamole tempo, perché se ha iniziato con un film come Flaminia è obbligatorio osservare attentamente dove andrà.