Quarto e (forse) ultimo film da regista per Alex Garland che con Civil War chiude (col botto) la sua breve ma intesa carriera da regista. Un film che in piena coerenza con i suoi precedenti, regala emozioni forti (vedasi il suo Men), grazie alla sua regia mai banale che altrettanto coerentemente porta sul grande schermo tematiche sempre affascinanti.
A fare da protagonisti assoluti, Kirsten Dunst e Wagner Moura, coadiuvati da una bravissima Cailee Spaeny, vista recentemente nel biopic dedicato a Priscilla Presley e che ricorda Juliette Lewis in moltissime inquadrature. Come ogni grande film, anche Civil War (prodotto non a caso dalla A24) porterà pareri contrastanti, soprattutto grazie al suo forte lato politico che fa da ingombrante sfondo. Ma il film non è solo politica. Dietro c’è molto, tanto altro.
Civil War, la Trama
Un’America al collasso, in piena guerra civile, divisa in tre grandi macro aree unite dalla sola volontà di destituire il presidente degli Stati Uniti. Un’apocalisse prossima all’esplosione, nella quale Lee e Joel ci si infilano dentro, viaggiando per circa novecento miglia verso una Washington DC pronta alla resa, con la volontà di intervistare il presidente per (forse) un’ultima volta.
Civil War, la Recensione
È bastato il trailer di Civil War per scatenare polemiche a più non posso, soprattutto oltreoceano. Sicuramente le tempistiche di uscita non hanno di certo giovato a placare gli animi dei ferventi politologi a stelle e strisce, ancor più se al momento ci troviamo a cavallo tra gli eventi inquietanti e grotteschi di Capitol City e le prossime elezioni presidenziali 2024.
Alex Garland ci immerge in un mondo cinematografico che sembra rispecchiare paure concrete, ossia il crollo della più forte democrazia occidentale. E forse è proprio per questo che un “semplice” sfondo arriva a catturare l’attenzione dello spettatore, almeno ad una prima visione.
Sia chiaro, Civil War ha la forza di contenere dentro di sé una miriade di significati nascosti. Eppure, in questo road movie pregno di ucronia, il vero terrore lo genera un’America divisa e in fiamme, in piena guerra. Uno scenario a cui non siamo abituati, ancorché non ci viene mai svelato né il motivo del conflitto né l’anno in cui ci troviamo, anche se possiamo ben supporre che non siamo molto lontani dal 2024.
Ecco quindi che il film viene inglobato da un discorso politico collettivo. Ben lungi dallo schierarsi in forma partitica (emblematica l’alleanza Texas-California, in tal senso: stati politicamente agli antipodi), Garland mette in scena la guerra in America, un fatto che raramente è accaduto e che sembra impossibile possa mai accadere di nuovo, sebbene il rischio sia sempre presente, visti gli eventi recenti che attanagliano la politica mondiale. Il contesto storico che stiamo vivendo riesce quindi ad aiutare Garland ad aggiungere un certo orrore, ampliando quello già consueto che porta con sé un film sulla guerra.
Tuttavia, nonostante Civil War sia un film sulla guerra non è un film di guerra. Civil War è un film che parla di umanità, di arte, di comunicazione, di violenza, di racconto. E di un giornalismo “davanti al dolore degli altri“, per citare apertamente, e non casualmente, Susan Sontag. Al netto di quanto spiegato poco fa, la forza del film di Garland è proprio quella di voler raccontare la potenza comunicativa delle immagini.
Impossibile non pensare in tal senso a quanto scritto dalla Sontag oltre vent’anni fa. Un saggio che assume una valenza sempre più attuale, ancor più dovuta dal fatto che siamo noi tutti ormai soggetti passivi osservatori di violenza. In tal senso, Civil Warva ad analizzare proprio ciò che c’è dietro le quinte delle immagini, sviscerando tecniche e comportamenti, azioni e reazioni.
Per ogni volta che Lee o Jessie dichiarano di voler scattare una foto, la videocamera di Garland si distacca, riprendendo la scena con un campo largo, dove gli attori sono quasi sempre di spalle. Si inverte così il rapporto tra oggetto e soggetto, mostrando quindi il rapporto in essere tra i fotoreporter e il momento esatto in cui la violenza è in atto. Un rapporto freddo, dove lo scatto dell’attimo giusto è l’unica cosa che conta.
Minuto dopo minuto, appare quindi sempre più chiaro il discorso etico e politico che c’è dietro le fotografie di guerra. La ricerca di un’oggettività che non potrà mai esserci, la volontà di raccontare accantonando ogni forma di schieramento. Il fatto, ritratto per ciò che è. Un’utopia, come scriveva la Sontag e come mette in scena Garland, soprattutto nel terribile finale del film, culmine di una sequenza di guerriglia urbana che lascia il cuore in gola ben oltre i consueti titoli di coda.
L’impatto che dunque ha Civil War sullo spettatore è diversificato per ogni singola persona seduta in sala. Coadiuvato da una colonna sonora bizzarra e schizofrenica, che passa dall’hip hop al southern rock, e da un cast a dir poco eccelso nelle sue prove attoriali, Garland ci regala poco meno di due ore di pure emozioni, confezionando un film potentissimo, dalle varie sfaccettature, e che permette una molteplicità di punti di vista che renderanno ogni successiva visione, bella e intensa tanto quanto la prima.