I Know This Much Is True, la recensione della miniserie
“I Know This Much Is True” è la miniserie capolavoro di Derek Cianfrance con protagonista Mark Ruffalo, uscita negli Usa nel 2020 sul canale HBO e attualmente proposta su Now e Sky Atlantic in Italia. Ecco la nostra recensione di una serie che è valsa all’attore statunitense un Emmy Award e un Golden Globe.
Un inedito ed emozionante Mark Ruffalo alla ricerca del suo alter ego, nel cast anche l’attore italiano Marcello Fonte.
I Know This Much Is True, la Trama
La vita non è stata particolarmente generosa con i fratelli Birdsey. Dominick – alias Domenico – e Thomas (Mark Ruffalo in duplice veste) sono due gemelli, con un’infanzia e una vita adulta difficile. Un patrigno violento, un padre biologico mai conosciuto, una madre segnata dalle tragiche esperienze familiari del passato e dalla malattia, l’oscura figura del nonno italiano Domenico Tempesta (Marcello Fonte) e la schizofrenia di Thomas, che accompagnerà Dominick nel corso di tutta la sua esistenza.
La prima puntata si apre in modo decisamente impattante: Thomas, in preda ad un terribile attacco, si taglia una mano con un machete in biblioteca con l’intento di espiare i peccati dell’umanità, sullo sfondo la guerra del Golfo e lo spietato regime di Saddam Hussein. Questo fatto prende spunto da un evento realmente accaduto negli anni ’90 allo scrittore dell’omonimo romanzo, Wally Lamb: Peter Mayock, uno dei suoi studenti, si tagliò una mano e si cavò un occhio in segno di protesta. Da questo evento, una sorta di via crucis di disgrazie o eventi difficili che coinvolgeranno i nostri protagonisti, i quali annasperanno in un vortice di similitudini profonde e apparenti diversità.
I Know This Much Is True, la Recensione
“I Know This Much Is True”, passata forse troppo in sordina alla sua uscita in periodo di pandemia, lascia il segno. Non la classica serie da mero intrattenimento televisivo e la traduzione italiana “Un volto, due destini” sembra in realtà non rendere giustizia alla profondità degli argomenti trattati, dando una connotazione distorta, quasi soap-operistica del film in questione. Derek Cianfrance racconta la malattia mentale senza filtri, sconti, né difese, così come racconta con un registro asciutto e tagliente i tragici eventi e gli intricati rapporti di questa famiglia. Pur mettendo a dura prova gli occhi e il cuore dello spettatore, non si supera mai una determinata soglia di sopportazione. Se si riescono ad accettare queste premesse immergendosi in un clima terso e plumbeo, ma riflessivo, si entra nel ritmo avvincente della serie e ci si connette sempre di più alle emozioni dei protagonisti.
Mark Ruffalo fa la differenza
Tutti coloro che sono rimasti sconvolti dall’interpretazione di Mark Ruffalo in Poor Things, non hanno evidentemente ancora visto questa serie. Mark è un attore di serie A, che ci abitua da sempre a grandi performance ed emozioni profonde. Qui però si va oltre. Qui c’è qualcosa di più, perché si tocca in un certo senso anche la sfera intima e privata del protagonista. Il legame tra i due fratelli Dominick e Thomas è invisibile e indissolubile, fatto di parole non dette e abbracci strozzati. Thomas, come affermato da Dominick in una seduta con la Dr. Patel (Archie Panjabi) è “sempre stato così, lo inchioda ai suoi errori”, gli sbatte in faccia con purezza e innocenza la verità delle cose. E per quanto Dominick passi una vita intera nel cercare di porre un confine ideale tra lui e il fratello malato, sarà proprio Thomas a ricordargli attraverso un riflesso che in realtà loro due “sono la stessa cosa.”
Thomas e Dominick: due lati opposti…della stessa moneta
Mentre uno si distrugge psichicamente, l’altro lo fa fisicamente e viceversa: come in un gioco di specchi, si manifesta la presenza e l’assenza costante di questo alter ego che, in un’altra situazione sarebbe stata la spalla perfetta di Dominick per la vita. Ruffalo in questo senso è di un’intensità insuperabile: se ci vuole talento a rappresentare una persona schizofrenica con umanità ed equilibrio, ancora di più ce ne vuole per dare volto livido e disperato a un uomo “normale” ma dalla disperazione inaccessibile. Thomas e Dominick sono entrambi persone complesse e ricche di sfumature. Nel loro rapporto c’è il dovere, l’obbligo e l’amore. C’è il risentimento e la gratitudine, la repulsione e l’attrazione. Sono due poli opposti per ogni cosa. Eppure… rappresentano due lati della stessa medaglia.
Ed è nell’intensità di questa interpretazione, dei primi piani che ne evidenziano rughe ed espressioni, che dietro Dominick sembra esserci proprio Mark. Per quell’alter ego, Scott, presente nei titoli di coda del film e nella sua vita. Per quella tensione e ricerca costante che sin da The Kids Are All Right, come dichiarato in alcune interviste, lo portano a cercare di Scott ciò che più gli manca. I “se” e i “ma” che Dominick rivolge a Thomas una volta deceduto, sanno, attraverso le parole e i silenzi di Mark, di profonda autenticità. E quando la realtà, nella recitazione, supera l’immaginazione e la finzione, è difficile non rimanere senza fiato.
Le condizioni dei detenuti negli Usa e in Italia
Questa serie affronta poi altri temi importantissimi. Come quello della condizione carceraria dei detenuti, ancora più complessa per coloro che sono affetti da disturbi mentali. Con l’aumento della popolazione carceraria a livello nazionale negli anni ’90, periodo in cui è ambientata la serie, le condizioni delle carceri americane sono peggiorate progressivamente e i legislatori hanno reso sempre più difficile per i detenuti intentare e vincere cause legali per i diritti civili. Cianfrance, nel racconto dei maltrattamenti su Thomas e la disperata sensazione di impotenza di Dominick, descrive con durezza una realtà estremamente attuale. Oggi le carceri statunitensi presentano un numero sproporzionato di persone che hanno problemi di salute mentale (circa un detenuto su quattro secondo il Bureau of Justice Statistics) le strutture non soddisfano quasi mai la domanda di cure (per il 70% complessivo dei detenuti in carceri statali o federali). La polizia viene in tal senso utilizzata anche per rispondere alle crisi di salute mentale e il suo coinvolgimento spesso si traduce in episodi di violenza fisica e verbale. In Italia la situazione non sembra essere da meno. Secondo l’ultimo “Rapporto Antigone” il 9,2% dei nostri 65mila detenuti soffre di disturbi psichici molto gravi e ogni tre giorni avviene un suicidio in carcere. È inoltre recente la notizia della condanna di alcuni agenti penitenziari per un violento pestaggio ai danni di due detenuti. Il film italiano “Sulla mia pelle”con Alessandro Borghi sulla vita di Stefano Cucchi dovrebbe averci insegnato qualcosa.
Thomas ci costringe a indagare sul concetto di malattia mentale
È interessante anche come, da alcuni accenni di sceneggiatura, si evinca un altro tema importante, quello dell’identità della malattia di Thomas. In una conversazione con la psicologa, Dominick afferma di non volere che suo fratello venga ulteriormente annientato dalle medicine che è costretto a prendere. Il rifiuto della soluzione prettamente “organica” e scientifica della malattia, ci riporta all’importanza del concetto di rapporto. Dominick vuole liberare Thomas dall’istituto giudiziario in cui è rinchiuso perché evidentemente intuisce l’importanza di restituire al fratello il calore di un abbraccio familiare e della cura dei rapporti. Anche se è lui il primo a evitare l’apertura verso gli altri e anche se è lui il primo a darsi spiegazioni alternative per sfuggire alle proprie emozioni o responsabilità, alla fine riuscirà a capire che la strada da intraprendere non è quella più semplice. Ma è quella della cura, del perdono e della separazione.
Particolarmente toccante è il racconto delle ultime tre puntate di questo fantomatico nonno materno Domenico Tempesta, di cui Dominick porta anche il nome. Anche qui curioso il legame con la realtà del protagonista, il cui nonno ha realmente origini del sud Italia, nello specifico calabresi. L’Italia è un qualcosa che evidentemente scorre con emozione nella mente e nelle vene dell’attore statunitense.
Nel leggere il manoscritto, Dominick ci porta a scoprire una Sicilia dai sapori e dalle musiche antiche e una storia vera, fatta di tanti italiani emigrati in America in cerca di fortuna. Felice la scelta di lasciarci gustare il dialetto siciliano, e ottima l’interpretazione del nostro Marcello Fonte, così come quella degli altri attori italiani.
Il personaggio del nonno va a rappresentare l’ottusità di un retaggio culturale e di un sistema complesso, di cui Dominick sente tutta la minaccia e il peso. E se fosse come il nonno? E se fosse lui l’anello debole, violento e malato della catena? E se fosse vero anche il malocchio che incombe su tutta la sua famiglia? In questo Dominick sembra rispecchiare in pieno una certa mentalità tipica delle tradizioni locali italiane di una volta, ma verrà riportato presto alla realtà da un amore ritrovato, quello per la sua ex moglie Dessa (Kathryn Marie Hahn), da due neonati che terrà in braccio in segno di rinascita e dal perdono che finalmente concederà a sé stesso. Finito l’ultimo atto, la serie lascia un punto di domanda sul futuro di Dominick ed è lo stesso punto di domanda che vi lasciamo noi, con il testo di una canzone dei Foo Fighters che recita così:
“I’ve got another confession to make, I’m your fool. Everyone’s got their chains to break, holding you. Were you born to resist or be abused? I was too weak to give in, too strong to lose. Is someone getting the best of you?”
I Know This Much Is True, il Cast
Dominick e Thomas Birdsey: Mark Ruffalo
Dominick e Thomas Birdsey (young) Philip Ettinger
Concettina “Ma” Ippolita Tempesta Birdsey: Melissa Leo
Ray Birdsey: John Procaccino
Leo: Rob Huebel
Nedra Frank: Juliette Lewis
Dessa Constantine: Kathryn Hahn
Dessa Constantine (young): Aisling Franciosi
Lisa Sheffer: Rosie O’Donnell
Dott.ssa Rubina Patel, interpretata da Archie Panjabi