Shogun è la nuova serie Disney Plus ambientata nel Giappone Feudale, oltre ad essere l’ennesima (anche stavolta, splendida) incursione del cinema nell’Oriente e la sua filosofia.
La recensionedi Shogun
Romance, avventura, mistero, intrighi di corte, storia, politica: sembrano troppi elementi, ad elencarli così, ma sono invece le diverse angolazioni con cui Shogun racconta la storia presa dal libro di James Clavell, con incredibili punte di lirismo e un’imponente epica narrativa intrisa di grandeur letteraria.
Quello che esce fuori, dopo la visione della prima stagione disponibile su Disney Plus (10 episodi, dal 27 febbraio uno a settimana fino al 23 aprile), è un affresco che concentra l’attenzione sui personaggi senza dimenticare di farsi panoramica suggestiva e approfondita sulla cultura nipponica.
La struttura della storia va avanti come a cerchi concentrici: all’inizio il focus è circoscritto all’equipaggio affamato della nave Erasmus che approda sulle coste del Giappone, arenandosi nei pressi di un piccolo villaggio, per allargarsi via via sempre di più comprendendo molti più personaggi per un racconto particolarmente intricato dove al centro è la lotta per il potere.
Inutile dire che gran parte del fascino di Shogun viene dal design particolarmente accurato, che ricrea la magia del paesaggio orientale con una spropositata ricchezza di dettagli d’epoca; ma se poi da una parte il racconto si tinge di erotismo e violenza, dall’altra emerge prepotente il nucleo fondante, ovvero il dramma umano che regge la miniserie.
Un po’ di storia
Lo shogun è letteralmente il comandante dell’esercito, titolo ereditario per i dittatori politici e militari che hanno governato nel Giappone tra il 1192 e il 1868. Equivale più o meno al nostro generale, perché era riservato alle cariche più alte delle forze armate essendo letteralmente un’abbreviazione (originariamente è 征夷大将軍, sei-i-taishogun, ovvero grande generale dell’esercito che sottomette i barbari): e solo dal 1192 indica i capi dell’elite militare che governa il Giappone nei secoli successivi. Lo shogun era nominato dall’imperatore, ma il conferimento era puramente formale, in quanto lo shogun aveva poteri simili a quelli di un capo di governo.
L’età feudale si fa allora tradizionalmente coincidere quindi con il 1185, quando finisce il periodo Heian dopo la guerra civile di Genpei tra Minamoto e Taira, due clan rivali. Ed è proprio la sconfitta dei Taira che determina la nascita dello shogunato Kamakura, con a capo Minamoto no Yoritomo che è il primo shogun nel senso comunemente percepito del termine.
La serie Disney Plus, come abbiamo visto, si incunea nel 1600, dopo la morte dell’anziano Taiko, quando si scatena una lotta interna al Consiglio dei Reggenti per il dominio del Giappone. Il subdolo Ishido (Takeiro Hira) viene fronteggiato da Lord Yoshi Toranga (Hiroyuki Sanada), ultimo erede degli shogun Minowara.
Questo finché una nave misteriosa si arena davanti un pacifico villaggio di pescatori, perché il capitano John Blackthorne (Cosmo Jarvis) è a conoscenza di alcuni segreti che potrebbero incrinare la credibilità dei preti gesuiti e dei mercanti portoghesi in Giappone, aiutando Toranaga a portare la situazione a suo vantaggio…
Il romanzo d’origine, Shogun, scritto da James Clavell nel 1975, è la prima parte (seguendo l’ordine cronologico) della Saga Asiatica che ripercorre l’ascesa al potere di Yoshi Toranga (ispirato al personaggio storico Tokugawa Ieyasu) che diventa il primo shogun dopo le guerre civili terminate proprio nel 1600 e dopo 30 anni dalla fine dello shogunato Ashikaga.
Vista la profondità e la vertiginosa vastità del tema storico, il cinema ha da sempre attinto a piene mani dal Giappone Feudale, dalle leggende e dalle mitiche figure degli shogun, a volte trasfigurandoli, a volte rendendoli storicamente realistici.
E a volte creando veri e propri capolavori, come il RAN di Akira Kurosawa (1985). Che sostanzialmente è un libero adattamento in chiave jidaigeki (termine usato per identificare i film intenzionati a ragionare sull’era Tokugawa) del Re Lear di Shakespeare: ambientato nella Dinastia Edo, cioè tra il 1603 e il 1868, Ran racconta di u anziano signore feudale che divide il suo regno tra i suoi tre figli, e nonostante ciò deve assistere ad una guerra fratricida che condurrà l’Impero alla distruzione.
Il cinema di Kurosawa, si sa, è impregnato di epica e grandiosità mentre declina la sua visione del mondo attraverso riflessioni sulla natura del potere e sui genocidi causati dalla follia umana: un mondo che ha una unica costante, ovvero la sofferenza dell’esistenza.
Ugualmente a Ran, anche I Sette Samurai (1954) è epico e fluviale, dotato di una potenza narrativa e visiva inarrivabile mentre descrive un’intensità emotiva difficilmente replicabile. Difficile trovare una sola sequenza o immagine che possa restituire il senso della complessità di questo tassello fondamentale della storia del cinema, un capolavoro ineguagliabile in bilico tra dimensione autoriale e spettacolo pop.
La storia del cinema è allora letteralmente infarcita di racconti epici su samurai e shogun: proprio per questo, uni dei registi orientali più colti e intelligenti, Takeshi Kitano, ha voluto dedicare un film (del suo mondo fatto di contrasti, dove la violenza è l’asse centrale delle inquietudini innestate nelle storie) proprio al Giappone per tributare il genere vero e proprio della sua terra. Zatoichi è allora un mosaico visivamente affascinante drammatico e insieme spassoso, che richiama il musical americano richiamato al tema giapponese, con insert di danza e tip-tap accanto a protagonisti in costume: un gioiello spiazzante ma da vedere.
13 Assassini del 2010, altro film capitale ambientato nel Giappone Feudale, è una delle pochissime opere di TakashiMiike ad aver saputo sfondare il muro di silenzio distributivo italiano. È sostanzialmente un remake del film omonimo di Eichi Kudo, ma Miike lo trasforma in un’opera capitale: perché lui è fin dall’inizio uno dei cineasti contemporanei più inafferrabili, capace di zigzagare tra l’horror allo yakuza eiga, attraversando anche western, serie televisive, sci-fi e noir.
Il suo 13 Assassini è un film bifronte, che da una parte esplora territori introspettivi che preparano gli eventi con un ritmo sapientemente lento, con una messa in scena rigorosa e attenta, dall’altra deflagra con una narrazione fatta di tradimento e codici d’onore dei samurai, creando allora un film fortemente politico, che riflette sulle radici stesse del pensiero feudale rigettandone esplicitamente le basi ideologiche come nessuno aveva mai fatto prima.
È proprio la seconda parte del film, occupata da una sanguinosa battaglia ambientata nel villaggio di Ochiai, ad essere allora la più filosofica, mentre racconta di una natura umana inesorabilmente spinta verso l’ingiustizia e la sottomissione dei deboli, mentre tra corpi mutilati e zampilli di sangue la pazzia dell’uomo non ha timore di svelarsi in tutta la sua spaventosa possanza. In questo modo, Miike riesce ad innestare sottocutanei i temi a lui più cari e a vestire con la sua poetica espressiva in una storia fatta di sangue e furore.
Questa breve carrellata sul cinema che ha inquadrato il Giappone feudale non può allora che concludersi con Killing di Shinya Tsukamoto, presentato in Italia a Venezia 75. Dove il regista nipponico è arrivato insieme a David Cronenberg: mostrando come i due siano possibili facce di una stessa medaglia, due discorsi complementari quanto differenti sulla poetica della “nuova carne”.
Zan (titolo originale per Killing) è un’elegia pacifista violenta e dimessa, perché il regista lega la sua poetica iper-cinetica ad un jidaigeki che parla senza parlarne del Giappone di oggi, del riarmo voluto da Shinzo Abe, della disumanizzazione definitiva.
Non è un mistero che il cinema del geniale cineasta giapponese sia debitore (ma mai derivativo) di quanto Cronenberg ha teorizzato fin dai suoi esordi, ovvero la fusione moderna, anzi postmoderna, dell’organico con il meccanico. Eppure dopo questa genesi comune, in Tsukamoto il discorso si è evoluto e germinato in un universo filmico autonomo e personalissimo: costruito sull’uso insistito della steadycam e su un montaggio ipercinetico e violento, lenti d’ingrandimento per mettere a fuoco l’alienazione tutta contemporanea che influisce, determina e distrugge il senso di identità, sulle cui macerie l’autore costruisce le sue storie.
C’è quindi un filo rosso che lega stretti insieme Testuo, il ragazzo di ferro del suo esordio (nell’omonimo titolo del 1989, profeta del cyberpunk d’oriente), uomo-macchina dal cui corpo esplodono superfetazioni e dal cui pube fuoriesce una trivella; e il ronin, guerriero senza padrone, protagonista di Killing, la cui coscienza impedisce di continuare ad usare la sua spada per poi masturbarsi compulsivamente dietro la sua capanna.
L’esplosiva, ultima opera, ad oggi, del geniale regista di Tokyo continua a formarsi e deformarsi sotto le spinte violente della sua ispirazione: lo statuto del reale si fa sempre più ambiguo, tesissimo fra una macchina a spalla disturbata e lunghe immagini di stallo che evocano paesaggi e linguaggi più meditati e filosofici; e torna la pulsione distruttiva di ogni suo personaggio – dal ronin che non vuole più combattere fino al contadino che vuole andare in guerra pur non avendo esperienza, fino al samurai che si getta a capofitto in duelli invincibili, che restituisce ritratti e ossessioni che riconducono tutto ad un sadomasochismo malvelato, come un bubbone di rabbia che si espande sottopelle ed esplode violento e irrefrenabile seguendo trasformazioni fisiche e mentali.
Zan è un capolavoro ferino: diretto, scarnificato quasi nella sua essenzialità, selvaggio nel suo lasciare emergere forze istintuali implacabili. E modernissimo, nel saper riportare la feroce realtà del Giappone feudale di metà Ottocento, e che non riesce a rassegnarsi al suo ingresso nella modernità, fino ai giorni nostri e alle nostre angosce contemporanee, con un salto bestiale che assale e non abbandona la presa.