Una delle originalità del cinema sovietico è la sua audacia nel rappresentare i personaggi storici contemporanei e viventi. Questo fenomeno era nella logica della nuova arte comunista che esaltava una storia recente i cui artefici erano ancora in vita.
Stalin: un’ontologia del cinema
La messa in scena di personaggi storici viventi ha assunto importanza centrale però solo con Stalin: se i film di Lenin sono venuti dopo la sua morte, fin dalla guerra Stalin appariva su schermo in film storici che non erano “film di montaggio”. Nei film in cui compariva, allora (interpretato all’inizio quasi sempre dall’attore Mikheil Gelovani, quasi un suo sosia) Stalin non era mai rappresentato, a differenza di caricature riservate a Churchill e alle altre rappresentazioni poco convincenti di Hitler e Roosvelt.
Le rappresentazioni non somiglianti risalgono a Melies, ma allora i cinegiornali non avevano imposto le loro esigenze, anzi ricostruivano battaglie navali nelle bacinelle per poi spacciarle come vere.
Abbiamo imparato solo dopo a distinguere il documento dalla ricostruzione, al punto da preferire un’immagine autentica incompleta e maldestra alla più perfetta delle imitazioni, o almeno a trattarle come generi cinematografici diversi: per questo (come dice Bazìn) lo spettatore moderno prova disagio quando un attore rende un personaggio storico celebre, anche se morto.
Stalin nel cinema sovietico
È interessante vedere come tre film (La Grande Svolta di Fridrich Markovič Ėrmler, del 1945; La Battaglia di Stalingrado di Vladimir Petrov, del 1949; Il Giuramento di Michail Čiaureli , del 1945) restituiscono Stalin in tre modi differenti: nel primo, dove la battaglia di Stalingrado si vede appena, l’unico interesse portato dallo sceneggiatore all’eroismo individuale di un soldato/corpo si riferisce alla riparazione, sotto il fuoco nazista, di una linea telefonica indispensabile al maggiore/cervello.
Negli altri due, invece, questo rapporto tra testa e membra raggiunge un tale rigore da superare il realismo materiale e storico, e il regista mette lo spettatore nell’impossibilità di ordinare il caos, guardandosi bene dallo scegliere all’interno dello stesso questo o quel dettaglio o eroismo individuale.
Nel cinema classico sovietico la supremazia del genio staliniano non ha più niente di metaforico, è ontologica.
Stalin oggi
Nel 2017 Armando Iannucci dirige Morto Stalin Se Ne Fa Un Altro (adattamento per lo schermo del romanzo a fumetti La Morte di Stalin di Fabien Nury e Thierry Robin), commedia nera che racconta gli eventi che seguirono la morte del governatore russo nel 1953; mentre nel 2019 Agniezka Holland ricostruisce gli orrori del cannibalismo in Ucraina portati alla luce del giornalista gallese Gareth Jones in L’Ombra di Stalin, in gara a Berlino 69.
Due approcci differenti tra di loro, ma anche lontanissimi dalle prime rappresentazioni cinefile dello statista, che lontane dalla Russia osservano con la giusta distanza e vedono (e restituiscono) Stalin come una metafora, non più uomo o dittatore ma figura da proiettare sul muro per vedere cosa si nasconde nella sua ombra lunga.
Il film di Iannucci mette al centro della sua riflessione la ciclicità attualizzante della satira e costruisce un’opera degli eccessi, equilibrando toni cupi ed esilaranti.
Personaggi ridicoli, soldati privi di qualsiasi pensiero critico, automi sia nella paura di sovversione sia nella fedeltà: sono macchie che agitano il regime al culmine del suo stato di terrore, dove le annotazioni d’esecuzione passano di mano in mano smistate come liste della spesa, e a Stalin viene negata la morte dell’eroe, con un infarto ai limiti dell’assurdo tra la lentezza della burocrazia e le degradanti impellenze fisiche.
Non è però questo il centro dell’obiettivo: perché Morto Stalin Se Ne Fa Un Altro si chiede se è bastata la fine dell’Urss per porre fine all’effetto domino del potere, rispondendo con il silenzio di uno schermo nero.
Stalin domani
Dal passato arriva il presente, e sulle ceneri del futuro si ricostruisce il postmoderno. E allora se il cinema postmoderno si delinea per la rivisitazione di stilemi e codici popolari, la costruzione di percorsi intertestuali, la contaminazione di generi, la molteplicità dei livelli di senso, Stalin al cinema non può che vivere in Superman: Red Son, graphic novel scritta dal genio di Mark Millar e disegnata da Dave Johnson e KilianPlunkett, adattata per lo schermo dal produttore e regista Sam Liu.
Un capolavoro a fumetti che continua a funzionare egregiamente anche a 17 anni dalla sua uscita cartacea, che non si preoccupa di sorprendere dal punto di vista puramente tecnico dell’animazione, però riesce ad ammodernare la fonte originale (sul ruolo della donna e la critica dell’American Way of Life) e a trasporre con grandissima forza concettuale la spersonalizzazione della figura supereroistica in chiave ancestrale, inserita invece in un contesto politico e sociale di stampo totalitarista.
Tutto inizia nel 1946, quando il piccolo Somishka rivela i suoi superpoteri all’amica Svetlana. Siamo in piena Urss, e il ragazzo crescendo decide di mettere i suoi poteri al servizio di Iosef Stalin, rispettando il cardine primo del pensiero socialista e diventando una figura che spaventa l’America ed Eisenhower, soprattutto perché asservito direttamente al volere del capo della Nazione Sovietica.