Dune di David Lynch è davvero così brutto? Storia di un film da rivalutare

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Per quarant’anni il Dune di Lynch è stato ritenuto uno dei film più brutti di sempre, ma è davvero così pessimo? Vi consigliamo vivamente di riguardarlo a mente fresca e senza pregiudizi

Dune: un progetto impossibile?

La versione di Dune realizzata da David Lynch nel 1984 è, come si sa, problematica. Sorto da infiniti progetti antecedenti e inattuabili tentativi di portare su grande schermo la space opera di Frank Herbert – tra i quali quello di Alejandro Jodorowski, che porta il film a qualcosa come 14 ore di durata – questo adattamento di Lynch si scontra da subito con mille recensioni negative.

I difetti, ci mancherebbe, ci sono e si vedono: una certa limitatezza negli effetti speciali, la recitazione esagerata e fuori luogo del cast (Brad Dourif, in particolare) e alcune scene particolarmente “trash”, come una finale inquadratura di Alia Atreides, che vorrebbe in qualche modo anticiparne il futuro oscuro ma, a chi non è familiare coi romanzi, consegna solo l’immagine casuale di una bambina assassina. E non parliamo nemmeno dei titoli di coda in stile soap opera.

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Paul e Stilgar cavalcano un verme

Sottigliezza e confusione

Il problema principale, e soprattutto per chi non conosce la storia, è di solito nella confusione dell’insieme. Una confusione però che sembra riprendere, a ben guardare, quella di Paul Muad’Dib nel suo processo di trasformazione. Il giovane Atreides scopre di avere poteri eccezionali e nel legarsi all’antico popolo dei Fremen nella difesa di Arrakis si tramuta praticamente in un messia, se non in un Dio.

Il percorso viene sottolineato da sequenze oniriche, astratte e sperimentali che mescolano immagini ultraterrene, incomprensibili per chi (ai tempi) è abituato a una fantascienza facile e accessibile alla Star Wars. Eppure, lo spessore della narrazione in Dune sta proprio nella sottigliezza delle visioni di Paul e di ciò che ne trae: non c’è una semplice divisione tra bene e male, ma c’è un acuto ragionamento sull’idea del potere, da dove deriva e a che cosa serve.

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Paul affronta la prova della scatola

Gli Harkonnen

Ci sono poi i tratti stilistici di un Lynch che nei decenni abbiamo imparato a riconoscere e ad apprezzare, ma che nel 1984 è ancora noto principalmente solo per The Elephant Man (pochi hanno visto Eraserhead). Lo stile anche grafico grottesco e disturbante che il regista impiega nel presentare scene autenticamente scioccanti, perciò, sconvolge e lascia perplessi non pochi spettatori.

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Un approccio che, ciò non di meno, si traduce in alcune sequenze particolarmente memorabili. Il barone Vladimir Harkonnen, per esempio, è tanto ripugnante e memorabile quanto lo è l’efferato e sadico Feyd Rautha (interpretato, ricordiamo, da Sting), e ogni azione o luogo legato agli Harkonnen, casata di villain grotteschi e vili, comunica repulsività. Una delle caratterizzazioni più memorabili del decennio.

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Il barone Vladimir Harkonnen

Inventare un mondo

Ma non solo: il lavoro di Lynch ha il merito di creare una lore anche visiva e scenografica per un’intera saga, laddove i connotati estetici di Arrakis, così come quelli delle strutture futuristiche, delle navette spaziali, degli stessi vermi giganti e degli inquietanti membri della gilda spaziale (disegnati da Carlo Rambaldi) fanno scuola e si ritrovano, debitamente filtrati, anche nei film di Villeneuve.

Elementi che vanno tenuti presenti nel riguardare il film di Lynch, il quale tutto sommato riesce a condensare in poco più di due ore una storia complessa, filosofica e profonda con tratti attenti ma facendone anche un prodotto d’intrattenimento spettacolare, pari e anzi superiore a molti film di serie b del genere in quell’epoca. Ve ne consigliamo una rilettura attenta: potreste restare sorpresi.

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Il gigantesco verme delle sabbie, Shai-Hulud