Avatar, The Last Airbender: la Recensione

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Debutta finalmente su Netflix l’adattamento live action di Avatar: The Last Airbender, tra entusiasmo e timori

Il rapporto di Netflix con gli adattamenti live action è complicato, e vale anche nel caso di Avatar: The Last Airbender. In passato, da un lato abbiamo Cowboy Bepop, una storia che dall’originale ha preso in prestito solo i nomi e un generale look dei personaggi, dall’altro One Piece, che molti ritengono sia il migliore adattamento live action di sempre.

Se si volesse semplificare il discorso, possiamo ricondurre le differenze al generale atteggiamento nei confronti dell’originale: come capita fin troppo spesso (per esempio nelle produzioni Disney o in Rings of Power) in Cowboy Bepop c’è quasi un disprezzo nei confronti dell’originale, l’idea che oggi siamo più “illuminati” e quindi quello che si è intrinsecamente superiori. In One Piece c’è rispetto, ammirazione e genuino entusiasmo.

La produzione di Avatar: The Last Airbender sembrava ondeggiare tra questi estremi, con ogni buona notizia accompagnata da una negativa, causando non poche perplessità tra i fan. Ma la serie com’è?

Trama

La storia è ambientata in un mondo diviso tra quattro nazioni, ognuna legata a uno degli elementi: Acqua, Fuoco, Aria e Terra. In queste nazioni ci sono artisti marziali capaci di manipolare gli elementi, per difesa e per offesa.

Il dodicenne Aang è l’Avatar è l’unico in grado di manipolarli tutti e quattro, ed ha il compito di riportare l’equilibrio, ponendo fine alle ambizioni della Nazione del Fuoco.

Recensione

Questa serie è un adattamento, non un remake, per cui non ci si può aspettare un rapporto 1-1 con l’originale e non lo si dovrebbe nemmeno desiderare; i media sono diversi e rispondono ad esigenze diverse.

Al contempo non si può neanche pretendere di separare i due, né si dovrebbe, perché un prodotto che decide di raccogliere quanto seminato da una delle serie animate più popolari di sempre ha delle responsabilità.

I primi minuti sono un perfetto “take that!” all’orrenda versione cinematografica di M. Night Shyamalan, e la cosa che colpisce immediatamente è come il “bending” non si limiti ad effetti speciali, ma come i movimenti siano diversi a seconda dell’elemento in questione. Subito il Fuoco ci viene mostrato con fluida ferocia, mentre la Terra ha movimenti più solidi, pesanti. Il vento è energetico, l’acqua elegante.

I combattimenti sono ben coreografati, nonostante qualche scelta opinabile come guerrieri in armatura gettati a terra dall’equivalente di una secchiata d’acqua. Particolarmente interessante lo scontro nella terza puntata, che fa un buon uso dell’ambiente circostante.

Gli effetti speciali sono perlopiù buoni, ma quando qualcosa non va si vede. Tanto. Questo emerge soprattutto in quelle scene in cui un intero personaggio è portato sullo schermo in CGI e si ha l’impressione di stare guardando un bambolotto animato invece che una persona. E, a volte, il green screen è così evidente da essere doloroso.

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Tra gli attori spicca Dallas Liu, il cui Zuko è semplicemente eccellente. Il trucco non convince più di tanto (la sua cicatrice da ustione sembra più una voglia), ma la recitazione è sempre sul pezzo, riuscendo a coniugare i sentimenti contrastanti del personaggio in maniera naturale.

E, parlando di Zuko, i migliori momenti della storia sono quelli passati seguendo la Nazione del Fuoco. Tutti i personaggi sono interpretati magistralmente. Se Paul Sun-Hyung Lee e Daniel Dae Kim sono garanzie, Elizabeth Yu è una piacevole sorpresa, portando una recitazione che sa essere sottile, percepibile già da un rapido movimento degli occhi e leggerissimo cambio nello sguardo. La parte vocale della sua recitazione non è ancora lì, pur essendo più che passabile e tutto sommato adatta, ma compensa con un consapevole uso del linguaggio del corpo.

Onestamente, i cattivi e gli antagonisti sono la migliore parte dello show. Le personalità sono ben definite, i personaggi carismatici. Particolare di notevole rilevanza, i loro dialoghi sono quelli che scorrono meglio perché più credibili e naturali e meno cartooneschi.

Può sembrare paradossale utilizzare questa parola come critica in questo caso, ma bisogna tenere conto del fatto che certe cose sono credibili solo dalla bocca di un personaggio animato e che sono incredibilmente innaturali quando pronunciate da un essere umano in carne ed ossa.

Parlando di personaggi, Sokka è sicuramente il migliore tra il trio dei protagonisti. La recitazione dei tre è passabile; Kiawentiio nei panni di Katara è sicuramente quella più debole, non aiutata dalla sceneggiatura che parla per frasi fatte.

Aver rimosso il maschilismo di Sokka ha finito per indebolire il personaggio. Nell’originale questo tratto di Sokka non viene mai dipinto positivamente e il liberarsene, il crescere oltre i suoi pregiudizi, è parte integrante del suo percorso come personaggio. Privato di questo tratto, Sokka si presenta come un personaggio statico, che è già arrivato dove deve ma, fortunatamente, riesce ad intrattenere portando qualche momento di levità senza forzarla.

Aang è troppo maturo. Nell’originale ha difficoltà ad accettare la sua missione, da un lato per il trauma (che qui dura la bellezza di cinque minuti) e dall’altro perché ha ancora dodici anni. Qui non incontra di questi problemi, è già perfettamente consapevole di quello che deve fare.

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Ora, togliere i difetti di Aang e di Sokka fa sorgere un dubbio: che questi sceneggiatori non siano in grado di distinguere tra intenzionali difetti dei personaggi e difetti di sceneggiatura?

Ciò detto, il principale problema è il pacing, il ritmo della storia.

Il pacing della serie è perennemente in modalità turbo e questo non aiuta, soprattutto all’inizio, perché la principale vittima è il dialogo.

In generale, il dialogo non è esattamente brillante. Questo è un delicato eufemismo per dire che, in certi momenti, la reazione che si ha è borbottare “oh no” allo schermo. E quando occorre mantenere un ritmo di marcia come quello che la serie si impone (non necessario considerato che la prima stagione dell’originale dura quanto la stagione di Netflix, se non meno), questo tende a peggiorare, soprattutto nei primi episodi dove fin troppo spesso i personaggi non parlano ma “espongono”. Questo si avverte particolarmente nei primi due episodi, dove i dialoghi suonano fin troppo spesso innaturali nel tentativo di comunicare quante più informazioni è possibile.

I costumi e i set sono troppo puliti, sempre come nuovi, senza la benché minima traccia di vissuto, un look che vuole ereditare il lignaggio animato. Questo funziona in una serie come One Piece, che vuole mantenere quel tono. In Avatar, purtroppo, questo si scontra con la pretesa di maturità che la serie si impone e il look troppo pulito stona, soprattutto dopo intense scene di combattimento tra terra, fuoco e quant’altro e alla fine non si è più sporchi di un impiegato che ha passato la giornata alla scrivania.

La storia dà il meglio di sé nei momenti di umanità, dove le lezioni non vengono semplicemente impartite ma mostrate. Quando la storia decide di togliere il piede dall’acceleratore e lasciare respirare la scena, dando al dialogo il giusto tono e tempo. Sa esplorare la vulnerabilità e sa essere commovente.

Nonostante alcune incertezze il cast non è incompetente e non si arriva mai al punto di voler staccare una puntata a metà.

Prendendo come punto di riferimento i due estremi, Cowboy Bepop e One Piece, Avatar: TLA si colloca esattamente nel mezzo. C’è dell’impegno e c’è sincerità nell’approccio, ma la serie è lontana dall’essere perfetta.

Tuttavia, se si prende atto delle imperfezioni e si corregge la rotta, può arrivare abbastanza vicino.

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Cast

  • Gordon Cormier as Avatar Aang
  • Kiawentiio as Katara
  • Ian Ousley as Sokka
  • Dallas Liu as Prince Zuko
  • Paul Sun-Hyung Lee as Uncle Irohù
  • Ken Leung as Commander Zhao:
  • Daniel Dae Kim as Fire Lord Ozai

Trailer

A cura di Francesco Mirabella

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