“Sei importante per noi così come lo sono i ricordi che condividi. Abbiamo pensato che potrebbe fatti piacere rivedere questo post di XX anni fa”: chiunque sia su queste pagine avrà letto almeno una volta questo avviso tra le sue notifiche di facebook. Si certo, ormai pare che solo i boomer usino facebook: ed è incredibile che in questa sola frase appena detta ci sia un concentrato di avvertenza sociale che difficilmente si potrà capire per intero.
Vita (non) social(e)
Perché i social hanno invaso le nostre vite in maniera così invasiva e radicale che nessuno può dirsi esente da un certo mood di pensiero. Diceva il poeta (Pasquale Panella, ndr) E tutto il tempo è vicino/ A portata di mano/ Sul tavolino, sul ripiano/ Su quanto ti è più caro, eppure non intendeva certo dire che tramite un algoritmo possiamo rivivere i ricordi che magari in un momento di incoscienza abbiamo condiviso con i nostri altri millemila amici virtuali.
Nel gennaio 2004 veniva registrato il dominio thefacebook.com, mentre il 4 febbraio The Facebook apre le sue porte, anzi le sue pagine del libro pieno di facce alla popolazione universitaria di Harvard, a marzo arriva alla Columbia University e a Yale, ad aprile al MIT e alla Boston University, a dicembre di dieci anni dopo conta già un milione di iscritti. Altro che la Secret Invasion della Marvel: facebook ha vinto e nessuno se n’è accorto.
Il cinema nasce come arte popolare ma ben presto, già con la fantascienza di Meliès, diventa lo specchio oscuro della realtà nel momento in cui la prende, la metabolizza velocemente, la deforma, la storpia e la restituisce a tratti irriconoscibile, a tratti dolorosamente uguale a noi.
Probabilmente, sono Adoration (2008) e Feisbum- il film (2009) i primi film che portano su grande schermo l’allora inverosimile novità dello schermo piccolissimo, quello del cellullare, e nessuno dei registi forse aveva compreso appieno che stavano raccontando la storia.
Drammi e orrore: ecco a voi il dark web
Mentre in Adoration Atom Egoyan parte dall’interfaccia video web per parlare della complessità dell’esistere trattata secondo una molteplicità di forme narrative; Feisbum- Il Film esce nel 2009, prodotto da Piefrancesco Fiorenza e diretto da Dino Giarrusso, AlessandroCapone, Serafino Murri, Laura Luchetti e Mauro Mancini, e prima di The Social Network intercettato le idee base dei social network.
Riuscendo a raggiungere una distribuzione in 240 copie (cifra altissima, se si pensa che l’opera è indipendente): il film è modesto, ma alla sua uscita, complice una regia un po’ sciatta e interpretazioni medie -tutto contava sull’effetto virale dell’operazione- nessuno capiva che quella trama fondata non su facebook ma sui suoi fruitori, rendendo esplicito che quel social (come tutti i social, d’altronde) non è solo uno spazio eccentrico e aleatorio, ma una base di partenza per qualcosa di nuovo.
Solo un anno, nel 2010, dopo arriva invece uno dei vertici di David Fincher, ovvero The Social Network. Non è certo una combinazione fortuita se è proprio il regista di Fight Club a raccontare il social per eccellenza al cinema: perché Fincher, da The Game fino a Gone Girl passando per Se7en e Uomini che Odiano le Donne, è autore per eccellenza del nichilismo metropolitano.
Se con Mank ha saputo cogliere la cesura tra il vecchio e il nuovo cinema, con The Social Network crea un meraviglioso apologo dell’America contemporanea, di rara forza e potenza narrativa, attraverso la cannibalizzazione che facebook ha operato sull’intera rete internet. E si potrà anche trovare disumano questo modo degenerativo di relazionarsi con gli altri, ma per capire la società di oggi, con un occhio di riguardo alla sua indole intima e sotterranea, non si può ignorare il ruolo che facebook ha svolto negli ultimi anni.
Anche se va detto che The Social Network, opera capitale, non è certo solo una ricostruzione storica delle origini del più clamoroso fenomeno collettivo dell’era moderna, ricollegandosi invece ad una declinazione del nuovo capitalismo post 11 settembre, dove l’idea di contatto si fa via via sempre più virtuale.
Se l’orrore, fin da Nosferatu di Murnau, è sempre stato il genere prediletto per indagare la società, era consequenziale che il web interattivo divenisse protagonista di un’infinità di pellicole. Prima di tutto perché, insito nel concetto stesso di social media, c’è l’ossessione latente per il voyeurismo che sta alla base dell’ontologia del cinema: Unfriended è il primo esempio di lungometraggio che completa la sua trama con la presenza dei social network, facendoli assurgere a protagonisti.
Nel 2014 il regista Levan Gabriadze racconta la storia di Blaire e dei suoi amici che ad un ano esatto dal suicidio di una loro compagna di scuola iniziano a ricevere strani messaggi e minacce tramite social. Durante una skype call collettiva, vengono allora coinvolti in un gioco al massacro da un ospite anonimo.
Mockumentary, found footage e video diary sono modalità narrative che si prestano al gioco horror, perché i budget si abbassano e i guadagni si alzano; Unfriended (azzeccato titolo italiano per l’originale Cybernatural) continua a dimostrare che l’horror si sposa con la tecnologia in una sorta di deriva assoluta delle teorie di McLuhan e Baudrillard, assolvendo i social stessi ad una specifica funzione narrativa.
Il film diventa allora in tutto e per tutto derivativo, un ipertesto che accumula idee e luoghi di altri film come icone, muovendosi intorno a loro con ritmo e lucidità. Capostipite anche per l’utilizzo dello screencasting, ovvero la storia raccontata secondo la prospettiva degli schermi digitali.
E in Italia?
Non si va molto lontano dal dato statistico dicendo che in Italia un buon 70% della produzione cinematografica riguarda la commedia (con un 20% che va sul dramma, il resto spalmato su tutti gli altri generi). Anche il social sono allora il pretesto per buttarla a tarallucci e vino, non riuscendo quindi quasi mai ad inquadrare il tema nella giusta coniugazione visuale e narrativa.
Dopo Feisbum, viene in mente Beata Ignoranza, uno dei titoli più trascurabili titoli dell’altrove molto lucido e sempre intelligente Massimiliano Bruno. Che d’altronde ha sempre indagato la contemporaneità, e non poteva mancare la storia riguardante i social.
Filippo ed Ernesto, due professori di liceo, sono diversi in tutto e rivali in amore: si ritrovano un giorno a lavorare nella stessa scuola. Questo riaccende i rancori sopiti e li spinge a mettere in discussione le proprie certezze: Filippo è un allegro progressista perennemente collegato al web, Ernesto è un severo conservatore, rigorosamente senza computer, tradizionalista anche con i suoi allievi.
L’ossessione del web e dei social che imprigionano personalità e individualità è stata raccontata da tanta commedia, da Fausto Brizzi con Poveri ma Ricchi e soprattutto Edoardo Leo con Che Vuoi Che Sia, e PaoloGenovese con Perfetti Sconosciuti. La dinamica dei personaggi prevale sulla storia, nel film: il conflitto sul modo di esperire il web serve da scheletro per proporre una serie di gag, alcune riuscite, altre meno.
E allora non tutto funziona, ma alcune sequenze sono azzeccate, e l’alienazione da facebook nel 2017 iniziava a diventare problema sociale.
Perché contemporaneamente in sala quell’anno usciva anche The StartUp, del compianto AlessandroD’Alatri. Un film purtroppo sbilanciato, con troppi difetti alla base: dalla troppa assonanza con il capolavoro di Fincher fino alla mancata centratura del tema, che non sa se declinarsi in dramma o commedia sociale. Per questo la scrittura arranca, ricorrendo a facili scappatoie, e il tentativo è fiacco perché alla fine tutto sembra molto tardivo, rispetto al sentire comune.
Unica cosa felice è lo sdoppiamento di senso: da una parte un film di (troppo) lunghe riprese in totale e di lunghi intermezzi musicali con ritmo da videoclip, evidentemente per sopperire ad una scrittura evidentemente in debito d’ossigeno; l’altro film, quello forse più importante ma meno incisivo, è quello che si ricollega all’Italia di oggi parlando di crisi del lavoro, dell’effetto tellurico provocato dai social network e dal concetto stesso di rete.
Stesso discorso, traslato in altro ambito, per Genitori vs Influencer di Michela Ramazzotti del 2021. Una commedia caotica e ambigua che non indaga mai quei social di cui vorrebbe essere satira intelligente, ma perde l’occasione di raccontare internet attraverso la lente popolare.
Il confronto tra mondo analogico e digitale viene impersonato da due avatar come Fabio Volo e Giulia De Lellis (sic), ma tutto si muove senza la giusta consapevolezza, seminando qua e là buoni propositi e suggestioni interessanti con una regia troppo altezzosa e incurante di fare tabula rasa intorno a sé anche a costo di mettere in secondo piano comprimari più adeguati dei protagonisti.
Anche il fatto che la Andreozzi rilegga certi stilemi della commedia degli equivoci senza comprenderli fino in fondo dimostra una sceneggiatura frettolosa e abbozzata, non approcciando mai la novità in maniera critica, preferendo fare leva sulle ambiguità del mezzo.
I social, oggi: quando la confezione è il contenuto
Uno dei punti d’arrivo più interessanti del cinema che indaga i social, dal punto di vista della sintassi cinematografica, è però Searching del 2018, di John Cho.
Siamo sempre dalle parti del thriller, ma torna lo screencasting e lo fa questa volta riuscendo nell’intento di interessare lo spettatore non -solo, o subito- per la naturale formale e sperimentale della tecnica, bensì per la partecipazione emotiva, la riflessione sociologica e il coinvolgimento psicologico attivo alla vicenda che racconta.
Perché in Searching (che ha avuto anche un seguito, Missing, nel 2023, scritto e diretto da NickJohnson e WillMerrick) il livello interpretativo principale è quello legato allo sviluppo tematico del rapporto interpersonali all’epoca del digitale, affrontato più volte ma sempre attuale.
È come se Searching riuscisse a fare un punto della situazione, a prendere il polso della realtà, riassumendo e prendendo su di sé tutta la narrativa cinematografica-sociale e restituendone un sunto emozionale: e lo fa quando sul finale costringe lo spettatore a riconsiderare in prospettiva non solo quanto visto ma anche la modalità in cui lo si è visto, a causa della particolare prospettiva adottata, influente sull’ottica e sulla soggettività della visione e quindi responsabile della trasformazione dell’esperienza cinematografica in qualcosa di ibrido.
Incredibilmente raffinato e realistico, il film ammette apertamente che la scelta linguistico-visuale non è altro che il riflesso immediato dell’intenzione di mostrare i diversi utilizzi del medium informativo a fronte della stratificata complessità degli esseri umani, sovrapponendo la prospettiva del protagonista principale a quella dello spettatore. Dicendo insomma che oggi, in maniera rivoluzionaria quasi, la forma si rivela il contenuto più avvincente e comunicativo.