Gogna mediatica, shitstorm,infamia: un trend troppo diffuso

La gogna mediatica è un fenomeno fin troppo diffuso nella nostra società. Ecco la nostra analisi

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La gogna è uno strumento punitivo, di contenzione, di controllo, di tortura, utilizzato prettamente durante il Medioevo. Etimologicamente, la parola deriva da gonghia che vuol dire collare di ferro e che deriva dal greco, goggylos (rotondo) e dall’arabo golion, ovvero grosso anello di ferro. Punto fermo l’esposizione al pubblico ludibrio, e la forma circolare: in fondo, è un moto circolare continuo e perenne quello che vede le persone massacrate, umiliate, distrutte, e una volta come d’incanto assolti poi ovviamente dimenticati.

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È uno di quei rari casi in cui, soprattutto pe la diffusione mediatica, è viva quella famosa livella di decurtisiana memoria: ricchi, poveri, vip e non vip, politici, manager si successo, nessuno è al riparo ma tutti possono essere protagonisti del virus della gogna, che non guarda in faccia nessuno.

Il fatto è che nonostante il termine leoni da tastiera sia ormai di uso comune come dispregiativo, chiunque appena entra nel world wide web sa di essere potenzialmente uno James Bond con licenza di uccidere, perché manca un’educazione alla responsabilità.

È di soli otto anni fa il caso di Tiziana Cantone, la donna di Napoli per la quale internet ha fatto da amplificatore a questa tendenza che dilaga un po’ ovunque. Perché il web c’entra ma non è determinante nella gogna mediatica, la Cantone si è suicidata a 31 anni nel 2016 apparentemente per le conseguenze della diffusione online di video privati che aveva girato durante rapporti sessuali con degli uomini.

Certo, i video sono stati distribuiti capillarmente grazie ad internet, ma il vero problema è ormai quello di attaccare personalmente i propri avversari, quotidiani o politici che siano, legittimando gli insulti nei loro confronti.

È eclatante il caso Ferragni alla luce del Pandoro gate: che mette in evidenza come la fama sia luminosamente accecante solo finché non si trasforma nel suo esatto opposto, l’infamia, quella che ti insudicia e sporca la tua immagine senza possibilità di appello.

La bufera social, la famosa shitstorm, fa male a tutti: ma se un personaggio pubblico sa che fa parte del gioco, la gente comune una volta che sente lesa la propria dignità davanti a chiunque fa più fatica a superare la fase come se nulla fosse. E tutto questo può potare, talvolta, anche a gesti estremi.

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credits: Facebook, In Campagna con il Cuore

Perché entrano in gioco caratteristiche umane che nei social hanno proliferato: si tende a creare un io iperfluido, che metta in scena non chi realmente siamo ma ciò che può piacere agli altri e crea consenso, perché nel momento stesso in cui ci si immerge in un ambiente social lo si fa solo e unicamente per creare un contatto con gli altri tramite un’immagine che non può che essere virtuale. E non si può certo dare la colpa alle piattaforme, i media diffondono contenuti negativi perché la gente scrive, legge e interagisce su quelli.

Il 14 gennaio 2024, Giovanna Pedretti viene ritrovata morta annegata nel fiume Lambro.

2024: COLPEVOLE O INNOCENTE?

La donna, titolare della pizzeria Le Vignole, a Sant’Angelo Lodigiano, è passata nel giro di tre giorni dall’essere considerata una sorta di eroina nazionale ad oggetto di insulti, in entrambi i casi sempre sui social, vorticosi nell’elogiare oltremisura e subito dopo a condannare con sentenza definitiva.

La storia inizia proprio su Google, perché nei contatti della pizzeria gli utenti lasciano feedback. Il 13 gennaio un utente, tale S, scrive “mi hanno messo a mangiare a fianco a dei gay, non mi sono accorto subito perché erano stati composti, e un ragazzo in carrozzina che mangiava con difficoltà, mi dispiaceva ma non mi sono sentito a mio agio. Peccato perché la pizza era eccellente e il dolce ottimo, ma non andrò più”.

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È proprio lei, Giovanna, a renderlo pubblico, innescando una serie di eventi a catena: la blogger Selvaggia Lucarelli e il suo compagno chef Lorenzo Biagiarelli che sollevano dubbi sull’autenticità del messaggio, visto come forma spietata di marketing; le solite reazioni scomposte e volgari dei social (si passa nell’arco di 72 ore da “così il mondo ha più speranza” a “un’altra cialtrona, che meraviglia”); il giudizio inappellabile che bollava la ristoratrice come colpevole; l’apertura di un fascicolo a carico di ignoti da parte dei carabinieri; e alla fine, il ritrovamento del corpo della donna morta a poco più di 24 ore da quando hanno cominciato a montare i dubbi sulla sua onestà.

2023: IL TEATRO VUOTO, LA MENTE PIENA

Il noto Alberto Re era un imprenditore di 78 anni, organizzatore nella sua Agrigento del Paladino d’Oro – Sport Film Festival, evento giunto alla 43^ edizione. Che è stata messa in scena a novembre 2023: purtroppo, nessuno si è presentato alla serata inaugurale, riservata ai soli partecipanti, e la cosa ha provocato una serie di reazioni degli utenti sui social contro l’uomo.

Travolto dagli sfottò perché il festival al teatro Pirandello era stato un flop, disertato dagli stessi partecipanti, Re si è sparato un colpo di pistola. Lasciando però una lettera, sequestrata dalla polizia, nella quale avrebbe criticato alcuni articoli di stampa che lo riguardavano.

Trovarsi senza vestiti di fronte alla tempesta, scaraventarsi contro un uomo con tale veemenza da farlo barcollare e cadere, superando i confini dell’umanità.

2022: QUANDO LA FORZA NON BASTA

Hana Kimura, a soli 22 anni, era già una wrestler professionista, forte e ambiziosa. Ma non è bastato a proteggerla, perché quando l’odio online ti travolge con violenza, nessuno può resistere.

Hana aveva partecipato a Terrace House, uno dei tantissimi reality giapponesi, nel quale i soliti ragazzi celebrity wannabe entravano in un appartamento di Tokyo per convivere sotto l’occhio vigile del pubblico e degli altrettanto soliti commentatori famosi, che davano le loro opinioni sulle dinamiche della casa da una posizione esterna, influenzando il pubblico.

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credits: facebook, For The Love of Wrestling

E la ragazza è finita nell’occhio del ciclone per un atteggiamento che in un Giappone dove il ruolo della donna e della vita privata sono il prodotto di un retaggio culturale diverso dall’Italia. Hana si è infatti infuriata quando uno degli inquilini ha involontariamente lavato e rovinato il suo costume da wrestler professionista, pezzo unico su misura per lei. Le escandescenze e l’aver strappato il cappello del coinquilino l’hanno resa oggetto di biasimo generalizzato, che è rimbalzato velocemente dai commentatori tv al pubblico e ai social.

Stereotipi nipponici sulla donna, rapporto contraddittorio tra voyeurismo e vita privata in Giappone, xenofobia (Hana era indonesiana), si sono mescolati insieme dando vita ad una tempesta di odio che ha travolto la donna che, nell’isolamento del coronavirus, il 23 maggio 2020 si è tolta la vita.

2019: IL LATO OSCURO DEL POP

Ad 11 anni inizia la carriera di Sulli, cantante coreana scelta dalla SM Entertainment per diventare una teen idol. Perché in Giappone (come negli Stati Uniti) funziona così, la casa discografica fa audizioni, sceglie le potenziali star e le forma con anni di durissimo training. Non serve neanche essere carini, c’è la chirurgia plastica.

Non tutti ce la fanno, ma Chon Jin-ri (vero nome di Sulli) si, e nel 2009 debutta con le F(x) in una girlband coreana. Ma nel 2014 la ragazza si prende una pausa, esausta mentalmente e fisicamente, distrutta dalla pressione mediatica e dal chiacchiericcio sulla sua vita privata, rompendo uno dei tabù mediatici: va in tv e dice di soffrire di attacchi di panico e difende l’aborto, ancora illegale in Corea del Sud.

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I difensori dell’immagine tradizionale della donna la riempiono di insulti: ma Sulli avrebbe voluto ribaltare gli schemi in un mondo fatto di schemi, essere libera in un settore che non prevede libertà, e il suo corpo viene trovato nella sua casa di Seongnam, periferia di Seul, dal manager, tra le probabili cause del suicidio depressione derivante da cyberbullismo e hating online.

2018: FUCK Y’ALL

Il 4 dicembre 2017, la pornostar di origini polacche August Ames ha scritto un tweet con queste parole (letteralmente tradotto: andate tutti a fanculo). Il giorno dopo viene trovata impiccata nella sua casa californiana.

La Ames inizia a lavorare appena diciannovenne nel porno diventando subito una stella, arrivando a ricevere nel 2015 l’Oscar dell’hard, il Best New Starlet per gli Adult Video News Awards. Una strada brillante finché su Twitter la ragazza dice di non voler mettere a rischio il suo corpo, rifiutando di lavorare con uno dei cosiddetti attori crossover, quelli che fanno cioè sesso con uomini, donne e transessuali. Da quel momento insulti, critiche, attacchi violenti che la trasformano nel capro espiatorio di una questione spigolosa e dalle infinite letture e declinazioni come l’omofobia.

Insieme alla patologica tendenza di Internet a semplificare dove tutti sono i paladini di tutto, dove tutti odiano tutto, dove tutti interpretano tutti. È un millennio sfortunato il nostro, stralunato e fondato sull’ego e sui suoi stati ipertrofici: Jaxton Wheeler, attore pansessuale, la apostrofa scrivendo “il mondo aspetta le tue scuse, oppure che ingoi una pillola di cianuro. Entrambe le cose vanno bene

FUOCO E FIAMME, DENTRO

Dice David Foster Wallace: “chi cerca di uccidersi non lo fa per sfiducia o per qualche altra convinzione astratta che il dare e l’avere della vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrargli attraente. […] Si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla stessa finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme

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credit: Black Mirror, 3×01, frame

La reputazione personale, nella dimensione digitale, è effimera e profondamente, inesorabilmente fragile. Si arriva relativamente subito alla fama, ancora più facilmente però si scivola e si è condannati all’infamia. Perché il tribunale mediatico è feroce e volubile, cambia idea in pochi istanti e sostiene tesi e antitesi con la stessa determinazione e con la medesima stolidità; ma con la medesima facilità confonde l’immaterialità di certe parole con quella delle loro conseguenze, perché le parole sono importanti. E fanno male.

“Io sono Innocente: spero lo siate anche voi”: era il 1988, a parlare era Enzo Tortora.

Un argomento scottante. Voi che ne pensate?

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