Federico Fellini: il viaggio di uno dei più grandi di sempre
La filmografia del regista più imitato al mondo è così ricca da offrire sempre nuovi spunti: in occasione dell'anniversario della sua nascita, vediamo come cambiò dopo il successo di 8 & 1/2
Il 20 gennaio del 1920 nasceva a Rimini Federico Fellini, uno dei maggiori registi della storia, attivo per quarant’anni, autore di alcuni tra i capolavori più imitati e influenti del cinema, vincitore di ben cinque premi Oscar (nel 1957 per La strada (1954), nel 1958 per Le notti di Cabiria (1957), nel 1964 per 8 ¹/² (1963), nel 1976 per Amarcord (1973) e nel 1993 con un Oscar alla carriera).
Nel 1965 Federico Fellini aveva quarantacinque anni: appare molto comodo allora segnare la data come uno spartiacque, coincidendo con l’uscita di Giulietta Degli Spiriti, il suo primo film a colori e quello che inizia il suo interessamento per l’occulto e il soprannaturale.
Fellini era reduce dal successo di 8 & ½, opera monumentale che lo aveva consacrato (e premiato con un Oscar, insieme a Pietro Gherardi per i costumi); naturale che il peso di questo successo potesse facilmente schiacciare o spaventare ogni passo successivo. Ma nel passaggio della mezza età di cui si parlava sopra, la psicologia associa alle esperienze di perdita anche la possibilità di liberare potenziali creativi.
Da Luci del Varietà del 1950 (la sua prima regia, insieme ad Alberto Lattuada, a cui seguì Lo Sceicco Bianco -su Mediaset Infinity- nel 1952) fino al citato 8 & ½, Federico si era distinto tra i registi del dopoguerra, da Rossellini a Visconti, da DeSica a Germi, in quanto se questi erano attratti da uno studio sul personaggio come determinato dalla società all’interno della quale di trova ad agire -i partigiani di Rossellini o i pescatori di Visconti, per capire- l’autore di Rimini era più per un cinema che raccontasse come il personaggio fosse determinato dalla società, come si comportasse confrontandosi con questa, e in definitiva dal rapporto pirandelliano tra maschera (apparire) e volto (il mondo di dentro).
Tutti film sostanzialmente realistici, quindi, profondamente legati alla contemporaneità. Eppure con 8 & ½ qualcosa cambia: arrivano gli insert onirici, perché l’inconscio dell’autore -che in quel periodo iniziava le sue sedute con lo psicologo Ernest Bernhard– sopravanza prepotentemente nel suo cinema, invadendo lentamente la sua messa in scena.
Giulietta degli Spiriti tenta allora di essere un ritratto spirituale del maestro romagnolo, nel momento in cui la visione altra assume la stessa grana dello sguardo consueto fino ad una fusione inscindibile.
È di appena un anno prima la dichiarazione del creatore de La Strada su Gustavo Adolfo Rol, che definì l’uomo più sconcertante che avesse incontrato: da allora, il banchiere divenne probabilmente la figura più importante nella sua vita, tanto incompresa quanto scomoda, per le attinenze comuni sui territori della magia, del paranormale, delle intuizioni dello spirito.
In Giulietta degli Spiriti sembra allora evidente il valore di testimonianza di un percorso personale inequivocabile e sovrapponibile quasi ad un documentario su sé stesso: ma contemporaneamente, ed è questo uno dei tanti cortocircuiti, valori aggiunti del film, lo stesso regista sembra voler prendere le distanze da quello che racconta, come se la materia autobiografica una volta espulsa sia così incandescente e spaventosa da volersene allontanare. Creatore e spettatore della propria opera, insomma.
Psicologicamente complesso, solido, sfaccettato, persuasivo e indimenticabile tanto da poter essere considerato uno dei più bei film italiani di sempre, Giulietta degli Spiriti come detto apre una nuova stagione del cinema di Fellini, che infatti nel 1968 prosegue con Tre Passi nel Delirio, ovvero Edgar Allan Poe adattato da Fellini, Vadim e Malle.
Toby Damnit è il titolo del segmento affidato a Federico, ed è caratterizzato da studio del colore prevalente, ricostruzione delle scenografie in studio, ideazione delie scene legate ai movimenti della macchina: il tema è l’io e il suo doppio, il bene e il male come le due facce della stessa medaglia, l’eterna lotta tra istinto e ragione.
A confronto con gli episodi di Malle e Vadim, Toby Damnit è quello meno lineare, il più complesso e personale, con una messa in scena maestosa e imponente. Ma la cosa più importante è che ormai lo stile visionario è diventato componente essenziale di Federico Fellini, d’ora in poi imprescindibile.
La Storia e la storia rilette nell’autobiografia
Fellini Satyricon, del 1969, è un film sfacciato sugli eccessi dell’antichità tratto dall’opera della letteratura latina di Petronio Arbitrio. Quanto il romanzo omonimo, in prosimetro, è lacunoso e frammentario nel testo (caratteristiche che rendono l’opera di difficile comprensione), il film di Fellini è folle e visionario: e se Giulietta degli Spiriti iniziava la seconda parte della carriera del suo regista, questo sembra quasi un rilascio della tensione, pura gioia visiva senza freni.
Probabilmente è stata proprio l’incompletezza del testo ad attirare l’artista insieme all’opportunità di giocare con alcuni eventi storici e farli suoi, nonostante la chiarissima assenza di ambizione storiologica avendo solo l’intento di raccontare il passato per mostrare l’eccesso e la lussuria presenti nel presente. E insieme, facendo vagare l’immaginazione esprimendo il suo gusto e la sua visione stilistica ed estetica, in un periodo di fortissima sperimentazione.
Negli anni Settanta Fellini era sempre più generoso nel concedersi, sempre più grottesco nella messa in scena, sempre più disancorato dalle regole della sintassi cinematografica e deciso a restituire la sua visione.
Roma e Amarcord, del 1972 e 1973, sono due tappe autobiografiche del percorso nelle quali però è sempre presente, fortemente, la nuova poetica felliniana sospesa in una sorta di realtà magica e surreale. L’autobiografismo allora s’inserisce negli episodi del passato, dalla scuola cattolica all’avanspettacolo, cercando quanto più possibile di palpare l’anima popolare che Fellini amava e amava raccontare.
Anche Amarcord, ritratto disilluso e malinconico della vita che passa tra sacro e profano, non rinuncia ad un tono sospeso mentre mette a confronto la mitologia del ricordo con la realtà effettiva.
Il Casanova e gli ultimi film
Il Casanova di Federico Fellini, del 1976, nel quale il personaggio letterario è una figura su cui proiettare il nostro lato oscuro, l’invecchiamento precoce e i pensieri di morte, segna un nuovo passaggio: se Lo Sceicco Bianco dava il via ad percorso filmico incredibile e unico al mondo, e se Giulietta degli Spiriti sanciva invece come si è visto la fase più sperimentale e creativa, Il Casanova è il primo film che mostra segni di stanchezza.
Il film venne accolto male, nel momento in cui non si riusciva a rintracciare nel protagonista una qualsiasi forma del Casanova della tradizione: ma era già un chiaro segno di come la materia scelta da Fellini venisse ricreata e totalmente riplasmata tale da diventare totalmente sua e di nessun altro, creando però una crasi a volte troppo grande tra lui e il pubblico.
Va detto che l’ultima produzione (che va dal 1979 fino al 1990 e che comprende Prova d’Orchestra, La Città delle Donne, E la NaveVa, Ginger e Fred, Intervista e La Voce Della Luna) è densa di trovate stanche e prevedibili, interne a film prolissi: osservando tutto il corpus criticamente, non può non notarsi però come il tono usato sia necessario a trasmettere la sensazione alla società cui il film stesso è rivolto.
Potrebbe essere un esempio lampante Ginger e Fred (1985), dove il maestro si cimenta con la religione catodica con esiti forse non brillanti ma di sicuro profetici, con la tv raffigurata come il Saturno di Goya, mostro onniveggente e onnipotente che fagocita tutto quello che gli capita a tiro, indistintamente, rivomitandolo stravolto, falsificato, già metabolizzato e semplificato per uno spettatore a cui è levato anche solo il piacere di giudicare e pensare.