True Detective: analisi di una serie diventata cult

Ture Detective è uno dei serial più amati e celebrati da critica e pubblico, arriva ora la nuova stagione con Jodie Foster

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True Detective: la seconda stagione, a Los Angeles

La storia è ambientata a Vinci, una immaginaria città della contea di Los Angeles, dove si verifica l’omicidio di un importante politico locale. Le indagini vedranno il coinvolgimento dei detective Raymond “Ray” Velcoro (Colin Farrell), Antigone “Ani” Bezzerides (Rachel McAdams) e dell’agente di polizia della California Highway Patrol Paul Woodrugh (Taylor Kitsch). Ma purtroppo la sceneggiatura si è fatta intensa fino ad essere eccessiva, appesantita da un tono fin troppo riflessivo fino a dilagare in troppi momenti dal ritmo estenuantemente lento.

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Nella foga del momento, dove tutti erano presi a fare confronti tra i primi otto episodi capolavoro e i successivi otto certamente meno incisivi, qualcuno ha dimenticato di dire che nonostante i tantissimi difetti e la innegabile diseguaglianza tra prima e dopo, True Detective continua(va) ad essere il grande erede della tradizione americana di thriller e gialli, di storie di frontiera malate e perverse, un prodotto insomma di estrema qualità nella composizione e nella scrittura.

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Forse, un unico regista per tutta la sua durata avrebbe fatto davvero la differenza, facendo come Fukanaga -e come qualsiasi altro autore raffinato e attento come lui- e cogliendo le giuste sfumature per dare alla storia e allo svolgimento una visione unica e compatta. Conseguentemente, avere una visione d’insieme avrebbe giovato anche a dare il giusto peso alla complessità narrativa: l’elitarietà è stata resa in modo ancora più stringente, restringendo ulteriormente il pubblico invece di allargarlo.

La continuità con la prima stagione, se non narrativa, è stata fatta tematica: e allora se nella prima storia scorreva sotterraneo il tema della virilità, True Detective 2 affronta un argomento comportamentale anche se da sottocutaneo lo rende ben visibile, e gli fa attraversare non solo i personaggi ma l’ossatura stessa della trama: la genitorialità, o meglio il rapporto tra genitore e figlio. La genitorialità come delitto e la genitura come espiazione: e nella scissione tra agire e subire, nel conflitto tra responsabilità personale e fondamenti ontologici, risalata e assume la necessaria ambivalenza la battura finale riciclata come tagline dell’intera stagione: abbiamo il mondo che meritiamo.

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Ma si è fatto presto a corregger il tiro: se tra la prima stagione e la seconda era passato solo un anno, per la terza si è dovuto attendere ben quattro anni, mettendo giustamente in pausa la produzione e riordinando le idee. La nuova stagione allora si riallaccia idealmente alla prima quando ritorna alla narrazione diegetica, sfasata su diversi piani temporali; e riprende a dare importanza al non detto, facendo tesoro della lezione dei pleonasmi della stagione precedente.

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