True Detective è una serie creata ed interamente scritta da Nic Pizzolato, iniziata nel 2014 sul canale HBO e diffusa poi in Italia da Sky: e dal 15 gennaio, su Sky Atlantic, arriva la nuova stagione con Jodie Foster tra gli interpreti.
Nel 2014, il mondo seriale era nel pieno del suo fulgore: un’epoca preconizzata negli anni Novanta dall’eterno Twin Peaks, fondata negli anni Zero da Sex & The City, Soprano e 24 (fase della sperimentazione), e che ha trovato compimento teorico nei primi anni Dieci con la conclusione di Lost (fase della rivoluzione).
Nel 2014, Nic Pizzolato idea True Detective, serie antologica che è un po’ il punto di arrivo della prima fase della narrativa seriale, contemporaneamente anche uno dei suoi punti più alti e ispirati.
Insieme ad American Horror Story di Ryan Murphy (fase della consolidazione) è la prima serie forte di un’autoconclusività inedita nel suo non avere un parco personaggi e una trama che attraversa tutte le diverse stagioni; e come la creatura dell’ideatore di Nip/Tuck, affronta a petto scoperto l’America più profonda, scoprendone le piaghe purulente nel momento in cui il rimosso fa rima con il rimorso di una storia macchiata di sangue e marchiata dalla follia.
La trama, in poche parole: Rustin Cohle (Matthew McConaughey) e Martin Hart (Woody Harrelson) sono due ex detective della omicidi della Louisiana e sono chiamati a deporre una testimonianza in merito a un noto caso di omicidio a sfondo rituale risalente a molti anni or sono, quello di una prostituta diciassettenne di nome Dora Lange.
True Detective: la prima stagione, in Louisiana
La prima stagione è firmata da Cary Jogi Fukanaga(che forse nessuno ricorda essere stato il regista della discordia alla Mostra del Cinema di Venezia del 2015 quando con Beasts of No Nation, fu il primo regista a portare un film prodotto da Netflix in un concorso) che la rese immortale: episodi di altissimo livello che si permettono di cambiare radicalmente ritmo di volta in volta giocando magistralmente con i tempi e con il tempo.
Perché i due detective protagonisti affrontano non solo un serial killer ma anche la loro vita, visto che la nuova indagine che devono affrontare assomiglia in maniera inquietante un caso di omicidi risolto sempre da loro decenni prima. In questo modo, c’è un continuo slittamento del focus della storia che scivola dall’indagine sui delitti a quella sui personaggi, riuscendo nello stesso tempo a far restare la trama gialla mai accessoria.
La prima stagione di True Detective conta su una sceneggiatura che mette insieme filosofia antinatalista e nichilista con evidenti richiami nietzschiani e una messa in scena spettacolare, riflettendo sui generi e catturando l’essenza più pura del noir mentre lo illumina con esterni accecanti.
La cosa più incredibile di True Detective è che riesce ad essere letteraria e insieme di grande impatto, mostrando in maniera definitiva le potenzialità della narrativa seriale, potendo contare su un arco temporale più lungo e articolato rispetto ad un lungometraggio, ma soprattutto offrendo una diversa immedesimazione dello spettatore nella storia raccontata. Senza dimenticare che questi primi otto episodi sono impregnati di pensieri complessi, a partire dalle idee de La Cospirazione contro la razza umana di Thomas Lingotti.
Questo perché, proprio come Nietzsche, Schopenauer e Camus, True Detective parla di come, fin dalla prima apparizione della morte sulla Terra (quando l’homo sapiens ha trovato per la prima volta un suo simile a terra rigido ed esanime e l’ha accerchiato per trascinarlo il più lontano possibile inventandosi un rituale apposito) l’umanità ha iniziato a fare i conti con la precarietà della propria vita dividendosi in due schieramenti, ovvero tra i pessimisti e gli ottimisti, i primi filosofi illuminati che vogliono squarciare il velo che occlude la vista con dottrine appunto antinatiste e vaticini apocalittici; i secondi, immersi in una vita inconsapevole mentre erigono chiese e santuari per divinità e si riconoscono in una nazione.
Ed è da questo approccio filosofico di Ligotti, che propone un approccio filosofico ai grandi temi, che la serie di Pizzolato riesce a tirare fuori una narrazione nella quale sicuramente conta il fatto che lo stesso Nic, prima di debuttare in tv, insegnasse sia letteratura che scrittura creativa, riuscendo così a impregnare una “semplice” indagine su un serial killer di temi così alti. Una base iper-letteraria, insomma, che non risulta mai respingente grazie ai salti temporali di sopra, facendo rimbalzare i personaggi tra passato e presente e restituendoli così tridimensionali da diventare a volte sfuggenti; e grazie anche alla nominata regia di Fukanaga, pastosa ed erratica.
Tutto plasmato dentro una location mai così perfetta, quella Louisiana rurale che si eleva a protagonista con quelle paludi che sembrano pulsare sotto i piedi dei personaggi, aspre e oscure mentre inglobano un racconto cupo e scabroso e malato, dove la corruzione è percepita per la fotografia arrugginita e torbida e per l’aria malsana che esala dalle sabbie mobili.
Tutti questi primati hanno però portato ad un altro, insospettabile: ovvero quello di poter rendere sempre Pizzolato prima lo scrittore più amato e poi quello più contestato nel semplice passaggio da una prima stagione ad una seconda, che ha saputo collezionare quasi solo esclusivamente critiche negative da pubblico e stampa
.Una delle caratteristiche principali di True Detective è quella di essere ambientato in uno Stato che le arcane caratteristiche del pericolo e dell’inconoscibile, essendo una storia ai margini del fuoco di quello che vediamo o pensiamo di vedere, miscelando indissolubilmente interpretazioni, scrittura, scenografia, storia.
Nella seconda stagione, si cambia registro: i personaggi vengono preferiti alla trama e alla storia che sembrano allora passare in secondo piano. Ma soprattutto, nella fretta produttiva di mettere in cantiere una seconda stagione dopo il successo stratosferico e probabilmente inaspettato, si lascia dietro un asso come Fukanaga.