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A cura di di Serena Trivelloni
Ecco la nostra recensione di Adagio, nuovo film di Stefano Sollima con protagonista Piefrancesco Favino
Difficile. Anzi difficilissimo commentare il nuovo film di Stefano Sollima, “Adagio”, testamento di una Roma persa, superstite, arida e indifferente. In una città dove tutto brucia e si muove al buio, il giovane Manuel (Gianmarco Franchini) si appresta a vivere “l’ultima notte al mondo” a causa di un ricatto da cui non sembra trovare facilmente via d’uscita. La sensazione, una volta seduti, è quella di aspettarsi il classico tocco stilistico di Sollima, in un’escalation di sequenze da lasciare senza fiato. E invece il regista, tecnicamente raffinatissimo, accompagna lo spettatore in un racconto “adagio”, che toglie il respiro man mano, smascherando progressivamente la realtà e il significato dei singoli personaggi.
Tutti protagonisti d’eccezione, per un cast che vince a mani basse per l’interpretazione: Toni Servillo nel ruolo del criminale Daytona, Pierfrancesco Favino in quello del “Cammello”, Valerio Mastrandrea “Polniuman”, Adriano Giannini e Francesco Di Leva nei panni dei poliziotti corrotti Vasco e Bruno. “Roma è cambiata e anch’io. L’ho osservata con occhi diversi percorrendo le sue strade con un altro passo. Un adagio” afferma Sollima durante la conferenza stampa di presentazione all’80simo Festival di Venezia. Sarà stato il contatto con Taylor Sheridan che lo ha guidato nei due film precedenti di stampo statunitense Soldado e Senza Rimorso, ma questa pellicola dalle sfumature di un crime noir, sembra portarci continuamente avanti e indietro nel tempo.
Nel passato, alla nostalgia per uno straordinario “Romanzo Criminale” in cui il Libanese (Francesco Montanari) sulle stesse note di “Tutto il resto è noia” (colonna sonora di Adagio) celebrava il matrimonio di Scrocchiazeppi mentre il Freddo (Vinicio Marchioni) pugnalava dritto al cuore “Il Terribile” (Marco Giallini); fino all’arido presente in cui della Banda della Magliana, e forse anche di Roma, non è rimasto più nulla. Nessuna realtà romanzata, né empatia, né compassione nell’ultima ricostruzione del regista: l’incendio alle porte di Roma, in contrasto con il diluvio universale di Suburra, sta ad indicare una minaccia costante e una fine imminente per una città che non riesce più ad amare sé stessa. Per qualcuno è fantascienza, per qualcun altro – romano di nascita o d’adozione- semplicemente un amaro presagio…
I nostri protagonisti tra le ombre sporche del passato e putridi corpi in disfacimento, costituiscono la feccia della società, l’ultimo stadio di un’umanità perduta. Uno ha una malattia in fase terminale, l’altro non vede, un altro ancora non sta bene con la testa e sembra aver perso il contatto con la realtà: quale migliore fotografia di una società che rischia di perdere nel proprio egoismo e individualismo sempre di più sé stessa?
Un racconto senza sconti e più distaccato quello di Sollima, che sembra voler trasmettere al pubblico un messaggio forte e chiaro: non esiste redenzione per chi non riesce a liberarsi dalla fame del possesso, dai vecchi codici d’onore e dall’omertà del linguaggio criminale. Uno scontro continuo tra passato e presente, vecchia e nuova scuola, in cui “tutto torna” per richiamare le parole della moglie del Cammello (Silvia Salvatori) e niente passa davvero.
La morfina che si inietta Favino è la metafora di un anestetico che permette all’uomo di sentire meno dolore possibile nei confronti di una società al collasso, di una realtà che ribalta continuamente gli schemi, in cui la corruzione degli uomini dello Stato è ancora più bestiale e feroce di quella criminale. Paradossalmente, gli unici a mantenere realmente fede a sé stessi in questo racconto sono proprio gli ex della banda della Magliana che il tempo ha deteriorato solo esteriormente. La lucidità criminale dunque sembra appartenere in ugual misura ai finti buoni e ai cattivi, fantasmi viventi di un’epoca passata.
Lo spettatore però non si trova più di fronte a personaggi giovani, tormentati e dinamici come nel caso di Romanzo Criminale, Gomorra (Marco D’Amore, Salvatore Esposito) Suburra (Alessandro Borghi, Filippo Nigro), le loro anime sono ormai devastate e prive di qualsiasi spirito di ambizione. Non vogliono più “ripigliarsi tutto ciò che è loro”, non vogliono più riprendersi Roma, non cercano un riconoscimento o un riscatto. Solo il ricatto, avido e costante, di chi ormai sopravvive – e non vive – senza scrupoli oltrepassando costantemente la linea.
In questo incedere lacerato dei personaggi, ci troviamo di fronte a una Roma scissa, come scissi sono tutti i protagonisti di Sollima, divisi interiormente tra i demoni del passato e le paralisi del presente, tra il buio della notte e la luce del giorno, tra il sangue della condanna e la promessa della redenzione. Una forza centrifuga e mortifera agisce perennemente su di loro, allontanando tutto ciò che è vivo, incontaminato, possibile. La forte caratterizzazione dei personaggi rimane però in superficie, non permettendoci di scendere troppo in profondità e empatizzare con loro, come nel caso dei film e delle serie precedenti.
Ma forse è proprio questa la volontà del regista, che tra le ceneri asfissianti nel cielo di Roma e il sangue versato sulla terra apre un unico spiraglio di luce per il nostro giovane Manuel: credere nella giustizia.
Che ne pnsate? Avete già visto Adagio?
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